Domenico Quaranta / Exhibart / 12-2004
Gli ultimi vent'anni sono stati testimoni di una rivoluzione senza precedenti dei mezzi di produzione, d’archiviazione e di diffusione della cultura e dell'informazione: una rivoluzione che si è ripercossa sulla società, sul modo di vivere e di disegnare lo spazio urbano, sull'organizzazione del lavoro, persino sul modo di fare politica e di gestire la guerra.
Se si escludono rarissimi casi, la critica d'arte si è dimostrata sostanzialmente impermeabile a questa rivoluzione. In fatto di "media", la critica d'arte odierna non va molto al di la di McLuhan e Lyotard, anch'essi orecchiati più che letti. In generale, sembra che i nuovi media, il loro linguaggio e la loro portata innovativa, debbano essere appannaggio solo dell'arte che ne fa uso, e della critica ad essa legata. E se si da per scontata la sostanziale indipendenza e incomunicabilità tra i due mondi - chiamati efficacemente da Manovich, in un saggio ormai vecchio di quasi dieci anni - la "terra di Duchamp" e la "Terra di Turing", non si vede perché questo gap dovrebbe essere superato.
Detto questo, se pure l'introduzione, nel linguaggio della critica d'arte, di termini come "programmazione", "postproduzione", "sampling", "hacking", "download" o "interattività" fosse l'unico merito di Postproduction, recentemente pubblicato in versione italiana da Postmediabooks nella traduzione di Gianni Romano, basterebbe per farne un grande libro. In realtà, l'esile ma denso libricino di Nicolas Bourriaud, scritto nel 2002, va ben oltre questo fondamentale arricchimento lessicale. Innanzitutto, regalando a una cultura sempre affamata di nuove etichette una label efficace almeno quanto quella - che l'ha preceduta - di “estetica relazionale”, e, ci auguriamo, destinata a uguale fortuna. Un termine che gioca con ironia con le convenzioni di questo tipo di terminologia critica, senza per questo cadere nel loro stesso errore. Postproduction, infatti, suona certo come postmoderno, postfordismo o postimpressionismo: in realtà è un termine tecnico preso a prestito dal linguaggio audiovisivo, e usato per descrivere un'arte, quella degli ultimi vent'anni, che si serve, come materia prima, di materiale culturale preesistente, proveniente tanto dalle opere di altri artisti quanto dal mondo della comunicazione e dal sistema dei media; in cui la figura dell'artista si rimodella su quelle del deejay e del programmatore, e mutua dalla nuova cultura delle reti e dell'mp3 nuove modalità di produzione di senso. 
Postproduction individua l’opera d’arte contemporanea come “un sito di navigazione”, un “generatore di attività”, la “terminazione temporanea di una rete di elementi interconnessi”, e la creazione contemporanea come uno sport collettivo, i cui strumenti sono la riappropriazione culturale, la pirateria, il riciclaggio, il détournement e il sampling, il montaggio e il doppiaggio; e le cui forme sono il mercato, la sceneggiatura e l’archivio.
Ma il pregio fondamentale di questo libro non è tanto di ordine contenutistico, bensì metodologico: e sta, precisamente, nell'aver evitato di parlare di artisti che lavorano specificatamente nell'ambito dei nuovi media, per concentrarsi su alcune star dell'arte contemporanea. Una scelta paradossalmente coraggiosa, perché preclude all'autore tutta una serie di esempi che avrebbero potuto illustrare al meglio le sue teorie: ma che gli consente di dimostrare, con una radicalità che vale il sacrificio, che l'avvento dei nuovi media non ha prodotto soltanto nuovi linguaggi e nuove forme d'arte, cui il sistema può permettersi di dedicare uno sguardo distratto; ma sta trasformando radicalmente le forme e i linguaggi di tutta l'arte contemporanea, da Jeff Koons a Maurizio Cattelan, da Douglas Gordon a Rirkrit Tiravanija, da Dominique Gonzalez-Foerster a Philippe Parreno. Fino a Marcel Duchamp, primo grande postproduttore contemporaneo. Obbligandoci a riconsiderare la legittimità, e il senso, di quella distrazione.

  Ilaria Gianni / Neromagazine/ 12-2004
Ecco finalmente uscito anche in italiano il piccolo, ma denso libro di Nicolas Bourriaud. Il termine postproduction, che tutti conosciamo come legato al mondo delle tecniche audio-visive, con il significato di lavoro effettuato su materiale già  registrato (editing, aggiunta di ulteriore materiale visivo, sottotitolatura, effetti speciali), qui applicato al mondo dell'arte, designando un tendenza artistica che il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud ritiene tipica della nostra epoca.Le novantasei pagine di questo libricino si cimentano nella spiegazione di una realtà  artistica che dagli anni Ottanta è diventata sempre più diffusa: la creazione di opere d'arte sulla base di lavori già  esistenti. Un numero sempre crescente di artisti ha infatti deciso di interpretare, riprodurre, ri-esporre o semplicemente utilizzare opere create da altre persone o prodotti culturali già  disponibili sul mercato, attuando la stessa metodologia dei DJ e dei programmatori, figure chiave della nostra epoca il cui fine comune consiste nel selezionare oggetti culturali e inserirli in nuovi contesti, contribuendo alla distruzione della tradizionale distinzione tra produzione e consumo, creazione e copia. Analizzando i lavori di artisti quali Mike Kelley, Jeff Koons, John Armleder, Rirkrit Tiravanija, Maurizio Cattelan, Douglas Gordon, Pierre Huygue, Jorge Paris, Vanessa Beecroft... Bourriaud traccia un'esauriente prospettiva della supremazia delle culture dell'appropriazione dove la nozione di originalità viene pian piano meno, contribuendo a mettere in discussione l'idea di copyright tanto radicata nella nostra società.

  Luca Beatrice / Bazar Web / 02-2005
Postmedia dà invece alle stampe un testo critico fondamentale per capire l’arte dei nostri tempi. E’ Postproduction di Nicolas Bourriaud, condirettore del Palais de Tokyo a Parigi, che in meno di cento pagine ci spiega come gli artisti di oggi creino sulla base di opere già esistenti, allo stesso modo di un dj o di un programmatore elettronico, capaci di selezionare oggetti culturali e includerli in nuovi contesti. Tra i nomi più cool di tale tendenza: Pierre Huyghe, Rirkrit Tiravanija, Douglas Gordon e Maurizio Cattelan.

  Stefano Loria / Il popolo del blues / 03-2005
Il mondo incantato (ma pieno di insidie) dell’arte contemporanea può oggi confondere le idee a chi si avvicinasse senza le dovute cautele alle opere dei nuovi autori. Questo agile (ma con molte efficaci illustrazioni) libro del critico d’arte francese Nicolas Bourriaud ha il pregio di affrontare quello che forse è il problema più basilare e dirompente dell’arte in corso: la differenza tra due modalità opposte di intendere il valore del fare arte durante gli ultimi decenni.
Da una lato c’è il partito dei fiduciosi – accusati di essere romantici - che concepisce ancora l’opera d’arte come espressione di una interiorità profonda, come materializzazione di un codice morale e di una stratificata e soggettiva visione del mondo.
Dalla parte opposta si collocano i cinici – accusati di essere postmoderni - che interpretano l’attività dell’artista come quella di un pubblicitario di alto rango, un conoscitore molto abile e sofisticato di ogni sottigliezza dell’industria della comunicazione, impegnato a creare non opere immortali e neppure concentrato ad esprimere una visione della realtà squisitamente personale. Qui si tratta di una operazione più semplice (ma non facile) : usare le risorse creative per colpire la fantasia del pubblico con realizzazioni che abbiano la forza di un pugno allo stomaco.
Il testo di Bourriaud analizza quest’ultima modalità, con riferimenti molto appropriati ad artisti notissimi e celebrati dal sistema internazionale (Jeff Koons, Haim Steinbach, John Armleder, Mike Kelley, Bertrand Lavier, Maurizio Cattelan) capaci di incrociare e sovrapporre – spesso con genialità - linguaggi estetici e griglie teoriche di differente provenienza. Il capitolo che chiude il libro, intitolato Come abitare la cultura globale (l’estetica dopo l’mp3), è strepitoso: raccoglie in poche - brillanti e chiare - pagine il senso di un mutamento radicale in corso dagli anni Sessanta fino ad oggi, con l’intelligenza di lasciare però il finale della discussione aperto ad ogni possibile futuro sviluppo.

  Massimo Sannelli / Microcritica / 05-2005
Dire delle cose “attraverso” un linguaggio chiaro, della comunicazione nel senso dei “media”, non della “chiacchiera” vana, può anche essere un buon modo per sfidare/ svelare il “sistema” (parola che può non piacere, ma la uso per capirci) e le sue narrazioni/ finzioni sociali, sul suo stesso terreno (ti rimando per comodità al mio saggetto introduttivo ai Truisms di Jenny Holzer, nel terzo numero di Ulisse, www.lietocolle.com/ulisse; e al sommo librino Postproduction di Nicolas Bourriaud, ed. Postmedia books, che bisognerebbe davvero inserire in una sana discussione sulle arti del presente).


  Stefano Chiodi / Alias n.31 / 08-2005
POST PRODUCTION
Un’installazione che riunisce nello stesso ambiente le scenografie di Isamu Noguchi per i balletti di Martha Graham, i materiali di esperimenti scientifici sulle reazione infantili alla violenza televisiva e quelli di Harry F. Harlow sulla vita affettiva delle scimmie, oltre a video e pezzi di scultura minimalista. Oppure una proiezione di Psycho di Hitchcock rallentato al punto di durare ventiquattro ore; o ancora, un grande ambiente in cui si è materialmente immersi nelle parole e nelle idee di Michel Foucault, o una tela in cui la disneyana ‘Z’ di Zorro è ottenuta con tagli ‘alla Fontana’. Sono tutti esempi di un modo di operare che caratterizza lo scenario dell’arte dell’ultimo quindicennio: una forma di appropriazione diretta, di ricontestualizzazione del ‘già fatto’, che reimpiega, lasciandole riconoscibili, opere estratte dalla cultura artistica, dalla letteratura, dal cinema. Nei lavori di Mike Kelley, Douglas Gordon, Thomas Hirschhorn e Maurizio Cattelan l’atteggiamento dell’artista somiglia a quello del deejay che miscela tracce musicali ‘campionate’, che interpreta, anziché produrre, che sviluppa elastici legami orizzontali anziché gerarchie verticali. In un mondo di forme già esistenti, di segnali già emessi, di edifici già costruiti, di itinerari già battuti, il campo artistico non è più un museo di opere da citare o ‘superare’, come avrebbe voluto l’ideologia modernista del nuovo, ma un insieme di dati da manipolare, mescolare e rimettere in gioco.
Nell’epoca dell’informazione immateriale e rizomatica di internet, degli scenari del gusto disegnati dagli esperti di marketing, del consumo spettacolare, “gli artisti programmano le forme più che comporle”, sostiene il critico e curatore francese Nicolas Bourriaud, che nel suo Postproduction (traduzione di Gianni Romano, Postmedia Books, Milano 2004, pp. 96, euro 14,50) ha individuato con tempismo il fenomeno. L’assunto alla base delle strategie di ‘postproduzione’ è che sia impossibile (o impraticabile) produrre alcunché di nuovo, e che generare singolarità nel caos di oggetti, riferimenti, nomi, che ci circonda voglia dire anzitutto rigenerarne un possibile valore d’uso. Se la questione artistica fondamentale non è più “che fare di nuovo”, ma “che fare con quel che abbiamo a disposizione”, i processi di cui parla Bourriaud designano “una zona di attività” in cui vengono elaborati protocolli alternativi per rappresentazioni e strutture narrative già esistenti: “imparare a servirsi delle forme vuol dire anzitutto sapere come farle proprie e abitarle”, passando da una cultura del consumo a una cultura dell’attività, da un atteggiamento passivo a una forma di resistenza basata sulla riattivazione di potenziali negati o marginalizzati.
Simili argomenti non sono del tutto inediti, se già T. S. Eliot rifletteva nel suo celebre saggio del 1919 Tradizione e talento individuale sul senso dell’eredità, sul carattere sempre attivo del rapporto con la tradizione e sulla relazione reciproca tra passato e presente, legando insieme la critica all’idea di progresso nelle arti e l’idea di impersonalità dell’artista. Quel che è nuova è senz’altro la prospettiva dalla quale gli artisti cercano di stabilire un rapporto con la cultura in cui oggi sono immersi. Come il consumatore teorizzato da Michel de Certeau ne L’invenzione del quotidiano, l’artista è oggi impegnato in una “produzione silenziosa” basata su un meccanismo di (ri)lettura che trasforma “la proprietà dell’altro” in un luogo occupato temporaneamente attraverso “un’attività astuta” che si insinua ovunque e si segnala per l’appunto non con prodotti nuovi ma con modi di usare quelli già esistenti. Sin dal ready-made di Marcel Duchamp l’arte novecentesca ha del resto costantemente messo in questione il principio produttivo dell’opera e lo stesso concetto di ‘creazione’’ artistica, stabilendo un’equivalenza tra scegliere e fabbricare, tra consumare e produrre. Ma una volta abbandonata l’idea di creazione come invenzione di un linguaggio proprio, l’arte stessa si è progressivamente trasformata in un campo di rappresentazione globale, in una gigantesca riserva di segni, di messaggi e di oggetti, in un montaggio di cui non si può più evidenziare l’unità, la struttura soggiacente: non si parla più di ‘valore’ dell’attività artistica come pure non si può più rintracciare la direzione ‘evolutiva’ della sua vicenda. Così, se l’arte concettuale degli anni sessanta e settanta (si pensi a Dan Graham o a Vito Acconci) era animata dalla volontà di svelare le strutture invisibili dell’apparato ideologico dominante, di decostruirne il sistema di produzione, la più recente generazione di artisti rifiuta, come sottolinea Bourriaud, ogni metonimia, ogni assimilazione del frammento al tutto, non crede più nella possibilità di fornire una lettura dissidente.
Si parla così di attività artistica piuttosto che di creazione, di ‘agenti’ più che di artisti, perché vi è al fondo la volontà di iscrivere la loro esperienza in una rete di segni e di significati che abbraccia l’intero campo sociale, minando alla radice le pretese di autonomia e insieme l’interpretabilità delle opere. Ma quello delle dinamiche sociali è davvero il solo orizzonte entro cui si gioca il destino dell’arte? Il disperdersi della forma-opera nel gioco comunicativo è il portato inevitabile delle strategie di postproduzione? Se è ben probabile che lo scacco alla parole poetica decretato dalla spettacolarizzazione della vita ha consumato ogni suo illusorio titanismo, l’opera resta nondimeno al tempo stesso una promessa e un fantasma che non cessa di segnalare la sua presenza. E benché certamente dismissibile come ‘piedistallo’, lo spazio estetico è anche la dimensione entro la quale la produzione artistica (come fattore di additamento, di sollecitazione) mostra incondizionatamente la sua forza di trasformazione del reale. Ogni rianimazione, ogni ripresa, o ritrasmissione, presuppone poi sempre l’ingombrante pensiero della fine, della morte, e dunque, come ogni scrittura, anche le pratiche artistiche basate sull’appropriazione custodiscono come propria verità rimossa l’annuncio di un’incipiente scomparsa. Insomma l’idea sommamente malinconica che la perdita è necessaria per poter generare, e che solo da un annichilimento può sorgere la possibilità di rinnovare una comprensione, di riprendere un filo interrotto. Attraversare questo territorio è dunque soltanto in superficie un puro processo di ricombinazione delle forme: nel gesto di prelevare e rimontare, per riprendere ancora de Certeau, l’artista avanza in effetti su un terreno oscuro, diviene “il moribondo che cerca di parlare” e può dire l’eccesso meraviglioso ed effimero di sopravvivere nell’attenzione dell’altro. Qui sta il salto vertiginoso, la scommessa su cui l’artista fonda la propria irragionevole pretesa, quella di essere, per sé e per noi, il catalizzatore di un provvisorio inizio. È questo il veleno sottile che offusca il senso, che rende irrimediabilmente postuma ogni opera, sovrastata com’è dalla responsabilità della propria malinconica autocomprensione. Forse dopotutto, anche se muta ed eclissata, l’arte è ancora veramente la nostra coscienza infelice.