vite precarie






Politica e violenza dopo il nine-eleven

introduzione di Olivia Guaraldo

Nell'ultimo decennio, a seguito degli imprevedibili eventi originati dalla serie di attacchi terroristici contro gli Stati Uniti d'America l'11 settembre 2001, la scholarship politologica, storico-politica e filosofica molto si è interrogata sull'impatto "epocale" di tali eventi sul corso della storia e della politica: dal ruolo dell'Occidente negli equilibri geopolitici mondiali alle minacce fondamentaliste, dalla cesura estetico-mediatica dell'evento al ritorno di una conflittualità 'di valori' da lungo tempo abbandonata. Si sono moltiplicati i dibattiti e i libri sui modi in cui era necessario analizzare, comprendere, razionalizzare un presente apparentemente incomprensibile. In una mobilitazione pressoché globale delle intelligenze e delle coscienze, l'occidente dopo l'11 settembre 2001 ha dovuto rivedere molte delle proprie verità e delle proprie certezze. Tanto è stato scritto in questo decennio sull'obsolescenza delle vecchie categorie di guerra, nemico, terrorismo, sulla loro incapacità di cogliere la natura assolutamente nuova della dimensione globalizzata e permanente dei conflitti. Le analisi di questi anni si sono spesso interrogate sulla necessità di un bilancio storico-politico sia dell'ordine mondiale scaturito dall'egemonia statunitense nel mondo, sia della tenuta simbolica dei valori dell'occidente, ma raramente hanno messo in discussione l'originaria coappartenenza di politica e violenza, di Stato e guerra. Non che non ci siano state riflessioni profonde e critiche nei confronti della guerra unilaterale dei 'buoni' occidentali/cristiani contro i 'cattivi' orientali/islamici, riflessioni che hanno riproposto temi già affrontati, in maniera aurorale, durante la Guerra del Golfo del 1991 e proseguiti successivamente, sia durante la guerra in Bosnia del 1992-95, sia durante la guerra in Kosovo del 1998-99. Queste importanti riflessioni scaturivano dalla necessità di ripensare il diritto internazionale, rapportandone i termini apparentemente cosmopoliti e pacifici, ai veri rapporti di forza che dettano l'ordine mondiale, controllano il consiglio di sicurezza dell'ONU e decidono le nuove guerre chiamandole azioni di "polizia internazionale". La critica ad un pacifismo di facciata che si fonda in realtà sulla centralità legittima (o sancita come tale dagli organismi internazionali) di un intervento armato è stata pervasiva ed efficace, ed ha contribuito a rendere scettiche persino le pubbliche opinioni più svagate in merito all'utilità dell'interventismo a scopi "umanitari" nelle varie zone di conflitto. L'11 settembre, tuttavia, ha modificato di molto il quadro di riferimento sia del diritto internazionale sia della critica all'attivismo militarista di NATO e ONU. L'evento ha avuto il triste merito di mettere a dura prova i quadri di riferimento teorici e simbolici delle diverse scuole di pensiero politico. Detto questo, dunque, sia consentito segnalare che poche sono state le riflessioni che hanno voluto mettere in discussione non tanto la bontà degli ordinamenti internazionali, non solo i rapporti di forza fra occidente e resto del mondo, ma l'ordine simbolico che, almeno nel pensiero politico occidentale, al rapporto fra violenza e politica fa riferimento. Quasi tutte le analisi di questi anni, in altre parole, hanno trascurato di interrogarsi sulla necessità di ripensare, criticamente, il nesso originario di politica e violenza, l'apparentemente ineludibile dimensione che esso, sin dai tempi antichi, va a strutturare e a configurare come realistico, necessario, inevitabile.[...]

2. Vite precarie

Il testo di Judith Butler che qui presentiamo in una nuova edizione, leggermente modificata rispetto alla precedente, appartiene a pieno titolo a questa nuova tendenza degli studi femministi, ed anzi è il capostipite di una precisa modalità di fare politica femminista. Esso infatti declina in modo innovativo le riflessioni relative al gender, alla sessualità, alla vivibilità di corpi e desideri, intrecciando il lessico della riflessione femminista e queer con quello proprio della riflessione politica mainstream. Guerra e violenza, in altre parole, sono interrogate a partire dall'insolita prospettiva del dolore e della perdita. Che rapporto sussiste, si chiede infatti Butler, fra la potenza militare USA, la sua politica estera, e il dolore, l'offesa, la perdita scaturite dal nine-eleven? La violenza subita in che rapporto sta con la violenza inflitta? Butler, a partire da queste domande, non intende però fare una gerarchia delle colpe e delle ferite, piuttosto cerca di interrogare la guerra, la sua "giustezza", a partire dalla comune esperienza di perdita. Gli americani hanno esperito l'offesa e il dolore: non è forse il caso di indugiare su quel dolore e su quelle perdite per rintracciarvi una somiglianza, una vicinanza con le perdite altrui? Innovativo e dirompente, il lessico di Butler ha il coraggio di accostare il linguaggio del dolore personale a quello della politica statuale. Si tratta, potremmo azzardare, di una insolita declinazione del motto femminista "il personale è politico". Indagare il rapporto fra politica e violenza a partire da un ambito tradizionalmente considerato privato ed impolitico, il lutto, al fine di politicizzarlo, ha lo scopo di dislocare dalle loro salde posizioni egemoniche le figure della guerra, del nemico, del conflitto. In continuità non immediatamente evidente con gli scritti sulla sessualità, il gender e il corpo, al centro della riflessione critica di Butler di Vite precarie ci sono insomma sempre dei corpi che, nella loro dimensione carnale e relazionale, soffrono indicibilmente per la mancanza di riconoscimento e visibilità, corpi cancellati e negati dal discorso e dall'immaginario pubblici, corpi invisibili e indegni di lutto, corpi inesistenti, corpi di nemici. Detto altrimenti, i corpi a cui la teorica americana fa ora riferimento, non sono i corpi innominabili e invisibili di soggetti che non si conformano alla norma eterosessuale, ma i corpi delle vittime civili della violenza americana sparse per il mondo, oppure i morti che non trovano posto nelle retoriche ufficiali del lutto nazionale post 9/11 (migranti, gay, lesbiche e musulmani morti nell'attacco alle Twin Towers, le vittime palestinesi, afghane, irachene). Quando uscì nel 2004 negli Stati Uniti, e poco dopo anche in Italia, Precarious Life fu subito molto letto e apprezzato. Con una certa dose di audacia intellettuale il testo infatti presentava una lettura del post 11 settembre che si discostava sia dalla superficialità dei resoconti giornalistici sia dalla specificità delle produzioni accademiche. Con sapiente capacità comunicativa, esso tentava di parlare ad una audience più vasta delle solite ristrette cerchie intellettuali e allo stesso tempo non rinunciava ad affrontare con profondità filosofica questioni che in genere i pubblici dei media di massa non sono abituati a frequentare. Si era allora all'apice propagandistico della "war on terror" e dei suoi nefasti "effetti collaterali": il gigante statunitense era impegnato sui due fronti dell'Afghanistan e dell'Iraq e G.W. Bush era poco lontano dall'essere trionfalmente riconfermato nella elezioni presidenziali del novembre 2004. Tuttavia, una parte significativa delle opinioni pubbliche delle democrazie occidentali, nonostante molti dei loro governi avessero volenterosamente sostenuto la campagna militare di Bush, si mostrava diffusamente insofferente nei confronti di conflitti la cui 'giustezza' appariva ormai assolutamente fantasmatica, proprio come i nemici contro i quali venivano scatenati. Questo testo, nel caso se ne dovesse dare una collocazione politico-culturale, potrebbe essere definito il manifesto di una collettività politica globale, antimilitarista e non-violenta, composita e post-ideologica, priva di leader e di istituzioni organizzative, ma estremamente consapevole dell'insensatezza e del pericolo planetario di uno "scontro di civiltà" portato avanti con i mezzi potentissimi e disumani di una guerra senza regole né confini. Non che il testo fosse stato concepito per essere un manifesto, anzi. Butler, come si diceva, ebbe il merito di inserirvi questioni di immediata attualità (il nine-eleven, la sospensione della legalità a Guantanamo e nelle numerose renditions attuate dai servizi segreti USA, il conflitto israelo-palestinese, le censure mediatiche del discorso pubblico americano, l'invisibilità delle vittime della violenza americana) per tentare di decodificarle alla luce di altre questioni, più profonde e sedimentate nel panorama filosofico-politico occidentale (il rapporto fra soggetto e Stato, sovranità e governamentalità, autoconservazione e vulnerabilità). I saggi qui raccolti mescolano in modo insolito l'attualità politico-mediatica e la riflessione teorica, nel tentativo di formulare una lettura originale degli eventi che hanno, da quell'11 settembre 2001, cambiato il mondo. Servendosi di Foucault e di Lévinas, di Freud e di Lacan, senza rinunciare però alla tematizzazione diretta e sofferta dell'esperienza del lutto e della perdita, Vite precarie, che sconta solo in parte la sua età, visto che molte delle questioni e dei conflitti aperti dall'epoca dell'attacco terroristico del 2001 e della successiva "war on terror" sono oggi più vive e sanguinanti che mai, offre ai lettori e alle lettrici un esempio paradigmatico di pensiero militante. Non si tratta però di una militanza al servizio di un partito o di una ideologia, bensì di una forma complessa, consapevole e ragionata, di attivismo politico esercitato attraverso la critica, il portato forse più felice ed efficace di quell'epoca della "fine delle grandi narrazioni" che il filosofo Jean-François Lyotard segnalava alla fine degli anni Settanta, e che vide poi l'espansione, soprattutto negli USA, del pensiero decostruzionista e post-strutturalista di matrice francese. Rielaborando creativamente quella tradizione di pensiero, la riflessione di Butler ha saputo coniugare l'orizzonte teorico postmoderno con la grande tradizione americana delle lotte per i diritti civili, traducendo il lessico della critica alla metafisica occidentale in una feconda lingua della critica sociale, fornendo così ai nuovi movimenti sociali (GLBTQ, femminismo, movimenti contro la guerra e, di recente, i vari movimenti Occupy) strumenti discorsivi per dire e pensare nuove forme di attivismo politico. Evitando il rischio di un'esaltazione estetizzante e nichilista tipica di certe banalizzazioni del postmoderno, Butler riesce a dare alla decostruzione un'insospettata torsione etico-politica. Infatti, proprio attorno alla pensabilità di un'etica non-violenta e alla necessità di costruirla a partire dalla ineludibile dimensione della vulnerabilità comune – una vulnerabilità che anche gli americani esperiscono dopo il 9/11/2001 – ruotano gli scritti di Butler a partire da Vite precarie. Come si diceva, i corpi e il potere sono sempre al centro della riflessione butleriana ma non si tratta più di corpi viventi e desideranti, o non solo, ma di corpi inestricabilmente legati alla violenza, alla perdita, al lutto: la riflessione sul gender si arricchisce di una riflessione ontologica sulla vulnerabilità. Il nine-eleven (e ciò che ad esso fa seguito) è quindi per Butler l'occasione dolorosa ed epocale per chiamare in causa l'ontologia, lo stato dell'essere, la sua condizione originaria di possibilità, e con essa lo statuto dell'umano. [...] Compito critico di ogni cultura democratica è contestare questi schemi, permettere a un insieme di visioni diverse, dissonanti e sovrapposte, di diventare visibili, accettare le sfide della traduzione delle culture, specialmente quelle che emergono dalla prossimità a coloro i cui valori e convincimenti sfidano i nostri a livelli davvero profondi. È ad una "concezione concreta e aperta dell'umano", che Butler aspira, nei saggi contenuti in questo volume, ossia ad una concezione in fieri di ciò che si qualifica come umano e perciò degno dei diritti che all'umano spetterebbero, incluso quello alla grievability, all'essere cioè "degno di lutto". Lutto, violenza e politica si articolano nel discorso di Butler secondo una nuova sensibilità teorico-politica, che oltre a segnalare le violazioni costantemente perpetrate dal potere americano nel mondo, in nome di una presunta superiorità 'democratica', rimandano alla dimensione ormai innegabile di una condivisa vulnerabilità.

3. Vulnerabilità e politica

[...] Cosa accade quando questo legame fra soggettività e dipendenza, fra identità e mancanza, viene improvvisamente a proiettarsi in un contesto più ampio? Cosa accade quando, per un evento imprevisto e terribile, ci troviamo ad esperire in maniera collettiva la perdita?
Leggere gli eventi del nine-eleven come esperienza collettiva di perdita significa, per Butler, collocare la questione della violenza pubblica - nel suo intreccio perverso di terrorismo islamista ed egemonia statunitense – in un orizzonte intersoggettivo, innestando sul lessico pubblico statuale la lingua del dolore personale: tutti sappiamo cosa significhi aver perso qualcuno, e "ciò che il dolore rivela […] è lo stato di dipendenza in cui ci tengono le nostre relazioni con gli altri ». All'ontologia individualistica della modernità statuale - e dei suoi perversi derivati post-statuali - Butler contrappone quindi un'ontologia della vulnerabilità, secondo la quale, in realtà, ciascuno è vulnerabile non solo alla perdita di sé, alla propria morte (secondo l'esclusiva pulsione autoconservativa propria dell'ontologia individualista) ma anche, forse prima ancora, alla perdita altrui. La violenza agisce sull'esposizione di ciascuno ad altri e mostra come la pretesa individualista di un sé impermeabile all'alterità e ad essa immune, sia clamorosamente falsa, e lo sia proprio nella misura in cui la vulnerabilità umana rimanda ad una condizione materiale del nostro esistere, o, come afferma l'autrice, a ciò che «è ai limiti dell'argomentabile. Partendo dai "resti" dell'attacco dell'11 settembre 2001 – siano essi il senso di perdita e di smarrimento dei familiari delle vittime, i necrologi negati, da parte di molti quotidiani americani, alle vittime palestinesi della violenza israeliana, la retorica dei "danni collaterali" – la pensatrice americana interroga le dimensioni del lutto e della perdita come elementi costitutivi di una soggettività post-bellica, una soggettività che viene dopo l'epoca del susseguirsi ininterrotto di guerre e conflitti, ancora pensati e agiti come se avessero un senso, uno scopo, un esito. La prospettiva butleriana coraggiosamente tenta di disarticolare i nessi che legano assieme alcuni dei termini cruciali della politica moderna, – Soggetto e Stato, nemico e guerra, nazione e cittadinanza, politica e violenza – mostrando invece come la loro versione tardo-moderna e globalizzata fatichi sia a governare gli accadimenti, sia a dare loro un senso. Sulla scorta delle riflessioni butleriane, è possibile affermare che partire dal lutto e dalla perdita per comprendere la politica significa, in altre parole, fare un percorso a ritroso, interrogarsi in maniera filosoficamente critica sia sulle premesse dell'ontologia politica sia su ciò che di essa resta. Tra queste premesse c'è naturalmente, come già detto, l'individualismo e il suo correlato politico, lo Stato.[...]

4. Oltre la sovranità

Soggetto e Stato sono tornati oggi ad essere quello che erano prima che l'ontologia individualistica di Hobbes ne decretasse la centralità per il nuovo ordine politico costruito secondo l'infallibile strumento raziocinante della nascente ragione scientifica. Essi infatti sono oggi due nomi astratti che faticano a trovare personaggi concreti in cui incarnarsi, e faticano altresì ad assecondare un qualsiasi ordine razionale, il quale, sempre secondo Hobbes, era lo scopo esclusivo della politica come scienza. Sono mutate le condizioni in cui essi dovrebbero agire: la potenza ordinante dello Stato e la funzione astraente e unificante del Soggetto sono da più parti sottoposte a pesanti spinte centrifughe. Entrambi faticano a mantenere alte le loro prestazioni politiche, perché feroci ed eterogenee sono state le critiche e gli smantellamenti. L'eterogeneità delle quali, appunto (il pensiero postmoderno, il mercato globalizzato, i particolarismi etnico-identitari, la rinascita religiosa, solo per nominarne alcuni) non può che confermare l'imprevedibilità delle trasformazioni storiche, sociali e culturali, e la loro intrinseca ingovernabilità. Nominare, come fa Judith Butler in questo testo, la crisi politica del presente a partire dalle dimensioni del lutto, della perdita, della vulnerabilità, significa tentare una lettura della realtà che metta in crisi, decostruendola, la strutturale appartenenza della violenza al politico. Tale sfida sorge dalla convinzione che gli accadimenti dell'ultimo decennio abbiano delineato un'epoca che mostra inequivocabilmente i segni di una indiscriminata proliferazione della "violenza pubblica" che non è però più rubricabile entro la cornice della guerra e del suo tradizionale autore, lo Stato. Non è del resto un caso che sulla fine del Leviatano, cioè sulla fine di un ordine politico basato sullo Stato sovrano, si discuta da più di mezzo secolo, almeno da quando Carl Schmitt nel suo Nomos della terra, si interrogava sulla nascita di un nuovo ordine mondiale, che avrebbe messo fine al predominio dello Stato territoriale sovrano a tutto vantaggio di un ordine imperiale marittimo. Tuttavia, anche il genio politico-giuridico di Schmitt, pur avendo l'ardire di provare a nominare il cambiamento e la novità, cercando a fatica – pur tuttavia con grande lungimiranza - di cogliere i futuri sviluppi di quelle trasformazioni, si muove sempre all'interno di un paradigma della politica che si fonda su un pervasivo e costante "primato del guerriero": finirà pure l'epoca dello Stato (e della sua funzione neutralizzatrice del conflitto) ma non finirà quella della politica intesa come scontro fra amico e nemico, come lotta per la vita e per la morte. Anzi, tale conflittualità subirà, in epoca post-statuale, un'esacerbazione ulteriore, il nemico trasformandosi in nemico assoluto o criminale, la guerra in guerra di annientamento e sterminio. Quello che forse resta da pensare, e prima ancora da immaginare, è la politica come svincolata dalla violenza, come dimensione plurale e condivisa di cura per il mondo, come piaceva dire a Hannah Arendt. Ricondurrela politica all'ontologia, ad una dimensione basilare che dica la specifica condizione dell'umano, comporta uno sguardo disincantato sul presente che sappia riconoscere le trasformazioni: finito il tempo in cui il Soggetto strutturava la base solida e ordinante dello Stato, resta da capire cosa viene dopo. È pur vero che uno sforzo teorico teso a comprendere il dopo del moderno ha caratterizzato in maniera pressoché totale la riflessione filosofica degli ultimi decenni. Purtroppo, però, i fasti del postmoderno sono stati sopraffatti dall'avverarsi carnale della sua apologia del frammento, e la celebrazione teorica di un soggetto destrutturato, frammentato, nomadico e debole è stata ironicamente seguita dal moltiplicarsi reale di forzati nomadismi, inaudite distruzioni di identità, corpi, storie, fino al recente trasformarsi iperreale dei corpi in frammenti di carne, nelle scene ormai troppo familiari della violenza contemporanea. Partire dal rapporto fra perdita e politica, fra lutto e violenza, invece, indica la possibilità di ripensare la politica non a partire dalla sovranità – del Soggetto, dello Stato – ma da una comune e condivisa vulnerabilità. All'ontologia individualista e sovrana Butler contrappone un'ontologia della ferita, dell'esposizione e della dipendenza. Pensare all'umano in termini di vulnerabilità significa però anche scostarsi dal presente nella sua contingenza e muoversi nel territorio della teoria: in primo luogo per decostruire un modo ormai inveterato di concettualizzare l'umano come soggetto irrelato, con la sua atavica autoaffezione, la sua autonomia, la sua sovranità; in secondo luogo per decostruirne l'ambito politico di azione corrispondente, lo Stato, e con esso la coappartenenza di politica e dominio, coercizione, violenza. Perché se è pur vero che la politica non coincide oggi necessariamente o esclusivamente con l'esercizio della forza, è altresì vero che al fondo di ogni ordinamento giuridico statuale moderno sta la minaccia deterrente dell'esercizio della spada, e, come è stato giustamente rilevato, il rapporto fra forza e diritto è essenziale alla definizione del moderno concetto di legge. Forse è ridondante ribadire che la critica all'ontologia individualista, alla finzione di un soggetto autonomo e sovrano, immune alle relazioni e fittiziamente estraneo alla complessa dimensione di una originaria dipendenza, è la preziosa eredità che la teoria femminista degli ultimi trent'anni consegna alla riflessione teorica sulla politica, e la costringe a rivedere le sue premesse, prima fra tutte quella della centralità della forza-violenza. La crisi del presente, l'epoca globale ci costringono a ripensare la politica a partire dall'ontologia, a declinare la questione del soggetto secondo direttrici nuove, che dalla violenza partano per approdare però alla possibilità di una sua decisiva messa in mora. Questa è la scommessa etica del libro di Judith Butler, che non ha perso la sua cogenza e la sua attualità, a quasi dieci anni dalla sua prima uscita.



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