Fotografia e materialità





introduzione

Questo saggio ha per oggetto un particolare aspetto della pratica fotografica italiana degli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso: l'incontro fra gli individui e le cose nei contesti ambientali e materiali che essi abitano. Come cercherò di dimostrare nelle pagine che seguono, il modo in cui la materialità del mondo in cui viviamo è stata presa a tema da fotografi e da artisti che hanno usato la fotografia è di centrale importanza per comprendere a fondo non soltanto la cultura artistica di quel periodo, ma anche l'interesse verso la città e il territorio di molta della fotografia italiana degli ultimi trent'anni. I contesti materiali intesi come elementi che contribuiscono in maniera decisiva a determinare ciò che noi siamo come individui (contesti di cui facciamo parte come gli oggetti e gli animali in quanto corpi fatti di materia, di carne e di ossa), sono stati oggetto di riflessione all'interno di due fenomeni culturali di grande importanza nella scena artistica italiana degli anni Quaranta e Cinquanta: il neorealismo e l'informale. È dunque necessario guardare all'eredità lasciata da questi due movimenti ai decenni ad essi successivi. [...] Parallelamente all'affermarsi del neorealismo nascono le neo-avanguardie artistiche. Come già teorizzato da Renato Barilli nei suoi primi scritti di giovane interprete e partecipe del fenomeno alla fine degli anni Cinquanta, uno degli ingredienti fondamentali delle neo-avanguardie è la componente esistenziale-fenomenologica. Secondo lo studioso, la ricerca artistica di quel periodo riflette gli orizzonti teorici della fenomenologia della percezione di Maurice Merleau-Ponty, dell'Husserl del "mondo della vita", del primo Sartre, di Enzo Paci e Luciano Anceschi, del pragmatismo di John Dewey. Con la sua 'mondanità' basata sull'imprevisto e sul contingente, l'informale incarna perfettamente i presupposti epistemologici, etici e affettivi dell'idea dell'essere al mondo inteso come processo di interazioni transazionali fra gli individui e l'ambiente. Esso esprime il rifiuto dell'astrattismo geometrico delle avanguardie razionaliste in favore del culto della vita e dei fattori contingenti a essa legati. Dalla filosofia di Merleau-Ponty "alla pittura di Pollock, Fautrier e Dubuffet il comune progetto di aggredire il mondo, l'ambiente, la natura viene 'sentito' (...) come contatto immediato scorrente attraverso canali nudi, di una condizione antropologica primaria ed elementare"6. Per questa via, Barilli si distanzia dall'idea della pittura informale come fenomeno esclusivamente introspettivo e privato; al contrario, ne sottolinea l'apertura verso il mondo. L'interpretazione fenomenologica dell'informale come arte mondana proposta da Barilli è legata al pensiero dello storico bolognese dell'arte Francesco Arcangeli, che nel 1954 pubblica su "Paragone" il saggio "Gli ultimi naturalisti". Secondo Arcangeli, l'informale rappresenta l'ultimo capitolo di una storia articolata intorno al concetto di natura come qualcosa che "si guarda, si respira, si sente, si soffre, ancor prima che la si dica in parole"; una storia che si sviluppa in Italia, e in particolare in territorio padano, a partire dall'XI secolo con Wiligelmo, Vitale da Bologna, Vincenzo Foppa, Moretto, Caravaggio, Giuseppe Maria Crespi e Antonio Fontanesi. L'ultimo naturalismo ha tratti decisamente empiristici ed è espressione del clima culturale del momento, caratterizzato in Italia dal dibattito fra fenomenologia, spiritualismo ed esistenzialismo positivo. Esso si basa sull'idea che la natura è il frutto di un incontro a due in cui il corpo, nella complessità del suo esistere, è l'unica realtà di relazione, e in cui la materia prevale sul segno. [...] Ma se da una parte le tecniche materiche e gestuali indicano la volontà di proiettarsi verso l'esterno, dall'altra parte la pittura informale rimane entro i confini del quadro e rifugge gli strumenti della tecnologia. È solo negli anni Sessanta che, ancora secondo Barilli, l'oggetto artistico – sia esso il quadro o la scultura – "rivela di non poter essere più contenuto" in sé stesso, e "accenna a occupare una spazialità ben concreta". La nuova informalità aperta e mondana di cui scrive Barilli trova espressione nell'emergere di fenomeni come l'arte povera, la body art e l'arte concettuale, anch'essi in parte basati, come la pittura informale, sul modello esistenziale- fenomenologico dell'essere nel mondo. L'informale espanso in tempi e spazi reali si esprime attraverso gli strumenti dell'assemblaggio e del ready-made, giungendo alle forme dell'environment, dell'happening, della performance, e infine del comportamento. Grazie anche al contributo di Marshall McLuhan, questa mondanità si apre inoltre all'uso degli strumenti tecnologici fra i quali la fotografia e il video. Non è dunque un caso che alla Biennale di Venezia del 1972 Francesco Arcangeli e Renato Barilli, ai quali viene affidata la curatela del Padiglione Italia, presentino una mostra dal titolo Opera o comportamento?. Nel testo di presentazione della mostra, Barilli scrive dell'allargamento dei mezzi di azione degli artisti oltre i confini ristretti delle belle arti, e del comportamento come strumento di "riscatto programmatico di tutte le nostre facoltà, di tutti i tipi di intervento sul mondo, a cominciare da quelli più sfuggenti e precari, nella convinzione che i tempi (a livello sociale, economico, tecnologico) siano maturi per ritrovare il piacere immediato del vivere, dell'essere, e abbandonare i gravi sacrifici del cancellarsi in un prodotto staccato". L'inclinazione fenomenologico-esistenziale della ricerca artistica italiana ha determinato il persistere nel nostro paese, anche negli anni in cui il pensiero postmoderno ha dominato la scena culturale internazionale, dell'idea della realtà come un fatto indipendente dagli schemi linguistici, concettuali e interpretativi utilizzati per definirla. Questa mancata adesione al postmodernismo da parte dell'arte italiana è stata spesso interpretata come il sintomo di un ritardo culturale. A mio avviso, più che di un ritardo si tratta una differenza culturale rispetto a un modello dominante. Uno degli scopi di questo libro è dimostrare che questa differenza ha le sue ragioni, le sue radici storiche e anche la sua 'attualità'. Negli ultimi anni, infatti, sono emerse voci di critica nei confronti del modello interpretativo postmoderno, che considera l'oggettualità degli artefatti culturali un mero supporto per la loro produttività testuale, per il loro status di beni di consumo, per l'analisi dei loro significati come veicoli di forme di potere, come depositari delle ideologie e dei desideri proiettati su di essi. L'interesse crescente nei confronti della materialità come oggetto di studio e di riflessione nei settori della storia della fotografia e della storia dell'arte è espressione di questo mutato clima culturale. Pur avendo certamente contribuito ad una migliore comprensione degli usi della fotografia come strumento di controllo ideologico e sociale, gli studi postmoderni sulle basi epistemologiche della produzione, della distribuzione e del consumo delle immagini hanno per lo più trascurato gli aspetti relativi alla materialità. In particolare, il modo in cui le forme materiali e di presentazione delle fotografie proiettano l'immagine nello spazio dell'osservatore non è stato oggetto di sufficiente analisi negli ambiti della riflessione teorica sulla fotografia e degli studi sulla storia della fotografia e sulla storia dell'arte. La tendenza più diffusa è stata quella di considerare la fotografia come un fenomeno sostanzialmente visivo. [...]


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