Sostenere che l'architettura sia la più ottimista delle attività culturali è un cliché insidioso, ma come tutti i cliché contiene un po' di verità. Costruire richiede un impegno poderoso, un investimento sul futuro, fondato sulla speranza e la fede che i propri sforzi vadano a buon fine. L'architettura è simbolo di crescita, di longevità, di immortalità. L'architettura è monumento e commemorazione, e dona a coloro che la erigono una presa sul futuro. I poeti, i pensatori e gli spiriti malinconici non costruiscono, ma meditano, persi nella contemplazione di frammenti; gli animi saturnini sono inadatti all'erezione di edifici. Ma l'architettura è anche il medium delle rovine. Sopraffatta dalla natura, l'architettura si sbriciola, si sgretola, si frantuma, e i nomi incisi sulle sue mura si consumano al punto da diventare illeggibili. L'architettura è simbolo della transitorietà di tutte le cose, e il suo tramutarsi in rovina non è che il malinconico contrappasso alle sue più sublimi aspirazioni. Ma spesso tuttavia si tratta di una malinconia confortante, di un piacevole e nobile dileguamento. Le rovine si visitano, non si abitano, e le si rende stabili per impedire che si deteriorino troppo, trasformandole così in monumenti di se stesse. Oggi stiamo tornando ad apprezzare le rovine, ma questa volta le rovine per cui sentiamo trasporto sono quelle del modernismo. Molti progetti del ventesimo secolo, compiuti per cambiare modelli politici, estetici e di vita, sono ancora sotto i nostri occhi, resi ancor più amari dall'affievolirsi della loro mancata incidenza sul futuro. Le rovine del modernismo sono sempre più spesso oggetto di espressioni artistiche e letterarie, e costituiscono una componente considerevole nelle opere di artisti contemporanei come Jane e Louise Wilson, Cyprien Gaillard, Tacita Dean, e Jeremy Millar. Permeate da una malinconia più oppositiva di quella, per esempio, di Caspar David Friedrich, le rovine del modernismo sono frammenti di uno slancio verso un mondo migliore che non si è mai realizzato. A differenza della rovina romantica, che era una mappatura del futuro attraverso l'immagine del passato (noi eravamo quello che voi siete, e quello che noi siamo voi presto sarete), la rovina moderna è la scoperta di un vuoto nel presente, un vuoto lasciato da un futuro potenziale che è esistito solo nel passato. Per alcuni aspetti il libro è un contributo a questa letteratura, ma a differenza della maggior parte degli studi sulle rovine contemporanee incentrati sull'architettura monumentale in cemento della social-democrazia del secondo dopoguerra, quest'opera analizza le prime espressioni architettoniche della modernità capitalista, ovvero i palazzi delle esposizioni della fine del diciannovesimo secolo. Molto amati ma anche poco compresi, questi giganti in vetro e acciaio sono stati i precorritori di quasi tutti gli esperimenti compiuti in nome del modernismo. Costruiti sull'onda dell'ottimismo, si sono per di più rivelati dei patetici fallimenti. Progettati dalle menti più razionali dell'epoca, erano tuttavia spazi confusi, contraddittori, oscuri e frammentari, immagini avvincenti di un futuro migliore, ma anche specchio della spietata durezza della modernità; edifici imponenti ma talmente fragili che sembravano poter essere spazzati via in qualsiasi momento. Poste alle radici stesse del modernismo, tali contraddizioni rappresentano un potente contrappeso a un'architettura intesa come attività profondamente positiva. Inoltre, questi antenati del modernismo contemporaneo costituiscono una sfida alla poetica della rovina; la transitorietà, la fragilità e la debolezza erano loro qualità innate, e con il passare del tempo non si sono tramutati in un ammasso di cemento sgretolato, ma sono per lo più scomparsi senza traccia, lasciando dietro di sé solo qualche effimera prova e testimonianza della loro esistenza. Vedremo come questi edifici nascessero già rovinati, ma al contempo impossibilitati a trasformarsi in rovina, e dimostreremo in che termini questa condizione contraddittoria abbia condizionato la nostra lettura dell'architettura in termini di monumento e memoria. Si dirà come la strana fragilità e carenza di monumentalità dei palazzi in vetro e acciaio siano qualità che abbiano contribuito, e finanche incoraggiato il loro fallimento, e ne esamineremo le implicazioni in architettura. Alla luce delle nuove conoscenze acquisite grazie a un'analisi storica di questi fallimenti architettonici, studieremo inoltre una serie di movimenti che potrebbero essere letti come prosecutori della tradizione tecnologica del modernismo, e useremo i nuovi spunti per mettere in discussione i filoni della cosiddetta architettura radicale contemporanea. Lungi da una continuità del portato del modernismo radicale, l'analisi degli edifici in ferro e vetro e del loro fallimento dimostrerà come i problemi dell'architettura e il suo rapporto con cultura e tecnologia siano nodi ancora irrisolti e che oggi siamo lontani da un'architettura rivoluzionaria tanto quanto lo eravamo all'epoca degli edifici in ferro e vetro.


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Douglas Murphy (Glasgow 1983) è un teorico dell'architettura che ha insegnato e tenuto seminari alla Oxford University, The Royal College of Art, The Architectural Association, ETH Zurich.... Ha studiato alla Glasgow School of Art e al Royal College of Art. "The Architecture of Failure" (2012) è il suo primo libro. Il suo blog "Entschwindet und Vergeht" - in cui scrive di architettura, musica, politica... - è stato nominato dal Guardian uno dei 'Top 5 Architecture Blogs'. Nel 2012 "ArtInfo" ha definito Douglas Murphy tra gli inglesi più influenti sotto i trent'anni.