yung ho chang. recensioni
   



The Other Project / presstletter.com / 03-2008

Presentiamo in anteprima sul sito gli estratti della conferenza tenutasi lo scorso 28 Marzo 2008 nella Facoltà di Architettura “L.Quaroni” dall’ architetto cinese Yung Ho Chang ora direttore del dipartimento di architettura del Mit di Boston...


Roberto Barzi / lettera.com / 06-2007

Yung Ho Chang. Luce chiara, camera oscura: Una porta per entrare nella luce, una porta per entrare nel buio

Mies [Van de Rohe, n. d. r.] ci ricorda che: Una sedia è un oggetto molto difficile. Si può dire che un grattacielo sia paradossalmente più facile a farsi. Questo è il motivo per cui Chiappendale è famoso. Allo stesso modo, andando a rileggere e guardare i testi della tradizione cinese, troviamo un pensiero di Confucio che ci sembra di nuovo pertinente: "Possiamo arrivare alla sapienza in tre maniere diverse. La prima è attraverso la riflessione, che è la maniera più nobile. La seconda è attraverso l'imitazione, che è la maniera più semplice. La terza è attraverso l'esperienza, che è la maniera più amara."

Yung Ho Chang è un vero architetto contemporaneo poiché riesce a combinare elementi diversi e anche a essere provvisto di una sensibilità composita e di una concezione complessiva del proprio lavoro. Basti assaporare l'intervista di Hans Ulrich Obrist contenuta nel testo: "Per me la globalizzazione è un fenomeno molto interessante, questo non perché qui l'economia sia in pieno boom o perché la Cina stia diventando un soggetto più importante nelle dinamiche globali. Piuttosto, dal punto di vista professionale, quello che mi interessa è quale tipo di scambio culturale sia ingenerato dalla globalizzazione". Yung Ho Chang però è anche molto interessato ad interagire con la contemporaneità, grazie ai suoi poliedrici interessi, non da ultimo il campo dell'arte. Nella prima intervista di Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti, riferisce della sua immensa passione per la pittura e ammette che solo la propria incapacità tecnica lo ha portato a mutare corso ai propri interessi. Difatti i nomi di artisti del calibro di Duchamp, John Cage e James Turrell sono citati negli scambi di idee con i suoi intervistatori. Non solo, Yung Ho Chang ha progettato lo "SMOCA-Small Museum of Contemporary Art" per l'artista e amico Cai Guo-Qiang. Dopo l'incontro con Hou Hanru e Hans Ulrich Obrist ha contribuito a progettare l'installazione di una mostra importante come Cities on the Move (1997- 1999). Alla Biennale di Venezia del 2003 si è potuta osservare una sua struttura di bambù che è servita come sede del padiglione cinese.
Luce chiara, camera oscura si concentra particolarmente su questo tipo di attività dell'architetto, sulle proprie riflessioni e sulla metodologia con cui si interpreta quotidianamente assieme ai propri collaboratori - spesso colleghi già affermati, ma anche giovani e promettenti allievi - non solo nelle realizzazioni concrete, ma in particolare per mezzo di mostre e "installazioni".
A chi è rivolto il saggio? Agli studenti e ai giovani architetti, anche se di tutte le opere di Yung Ho Chang sono prese in esame solo le "installazioni" e le architetture temporanee. Soprattutto è un testo per persone curiose - non è obbligatorio essere degli specialisti del campo -, poiché racconta della formazione di un intellettuale nella Cina di Deng Xiao Ping e negli USA di Reagan, parla di alcuni suoi maestri, facendo dei rimandi alla cultura tradizionale cinese e alla propria neo-politica, soprattutto commerciale. Un libro d'architettura dove non si discorre solo di architettura: il suo orizzonte è assai più ampio. Un testo in cui la parola scritta ha più peso delle sue pur eleganti e significative immagini.
Se poi i lettori di questa recensione risultassero interessati a Yung Ho Chang, c'è un altro bel volume che lo riguarda, scritto da Laurent Gutierrez e Valerie Portefaix, due francesi che vivono ad Hong Kong: Yung Ho Chang: Atelier Feichang Jianzhu - A Chinese Practice, Map Books Publisher, Hong Kong. ’insolita architettura di Yung Ho Chang.



Caterina Besio / NoMagazine n.04 / 09-2005

L’insolita architettura di Yung Ho Chang. Tra gli architetti cinesi dell’ultima generazione, Yung Ho Chang è sicuramente tra quelli sotto stretta osservazione. Nato nel 1956 a Pechino, ha trascorso ben quindici anni negli Stati Uniti, prima da studente e poi da insegnante. Nel 1993 decide però di tornare a casa. Insieme alla moglie, Lijia Lu, fonda il primo studio privato in territorio cinese dandogli il nome di Atelier Feichang Jianzhu. Tradotto in italiano può significare “architettura insolita” oppure “costruzione irregolare”. Irregolare perché? D’altra parte abbiamo imparato ad amare la visone dell’architettura di Yung Ho Chang proprio perché si nutre di un presente che si fonda su una profonda consapevolezza del passato. Con lo stesso metodo Chang costruisce, pensiamo alla Split House (2002), ad esempio, alla combinazione di materiali vecchi e nuovi: “Ho usato legno e cemento in modo da fondersi appunto con il paesaggio, così che quando uno vi si avvicina non ha la sensazione che la casa sia nuova ma faccia parte già da tempo della collina, sulla quale non sono intervenuto. Questo è molto orientale”.
Yung Ho Chang è un vero contemporaneo perchè riesce a combinare elementi diversi così come a possedere una sensibilità locale mista ad una consapevolezza del globale, come è evidente leggendo l’intervista di Hans Ulrich Obrist contenuta in “Luce chiara, camera oscura”: “Per me la globalizzazione è un fenomeno molto interessante, questo non perché qui l’economia sia in pieno boom o perché la Cina stia diventando un soggetto più importante nelle dinamiche globali. Piuttosto, dal punto di vista professionale, quello che mi interessa è quale tipo di scambio culturale sia ingenerato dalla globalizzazione”.
Ma non è escluso che Yung Ho Chang sia abituato ad interagire con successo alla contemporaneità anche grazie ai suoi molteplici interessi, non da ultimo, l’arte. Nell’intervista di Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti, Chang racconta la sua grande passione per la pittura e che solo la sua incapacità tecnica lo porterà poi a divergere i suoi interessi altrove. Artisti come Duchamp, John Cage e James Turrell sono nomi che ricorrono nelle sue conversazioni. Non solo, Yung Ho Chang ha progettato lo SMOCA (Small Museum of Contemporary Art) per l’artista e amico Cai Guo-Qiang; dopo l’incontro con Hou Hanru e Hans Ulrich Obrist ha contribuito a progettare l’installazione di una mostra importante come Cities on the Move (1997- 1999). Ultimamente abbiamo visto la sua struttura di bambù che è servita come sede del padiglione cinese alla Biennale di Venezia. “Luce chiara, camera oscura” si concentra particolarmente su questa attività dell’architetto cinese, sul suo pensiero e sul modo in cui si esprime non soltanto nelle costruzioni, ma anche mostre e nelle installazioni. Anzi, il libro comincia proprio da un episodio, un incidente, “La diagnosi di Bucarest” (il primo capitolo del libro) è composto da una serie di riflessioni scritte dall’architetto su un letto di ospedale dove era stato ricoverato a causa di un incidente avvenuto mentre si recava con il direttore del MNAC di Budapest alla sede della sua mostra “Camera”.


Luigi Prestinenza Puglisi / PresS/Tletter n.38 / 11-2005

1. Una auto presentazione in max 5 righe degli autori...

Rachaporn Choochuey è nata a Bangkok e li' insegna e progetta. Stefano Mirti è nato a Torino e per il momento insegna e progetta all'Interaction Design Institute Ivrea. I due autori si sono conosciuti a Tokyo, corso di giapponese 'elementary I'. Lei era li per il suo dottorato in storia dell'architettura contemporanea, lui a fare il suo post-doc con Tadao Ando.

2. Chi è Yung Ho Chang?

E' un intellettuale/architetto. Nato in Cina, studia architettura subito dopo la riapertura delle universita' della post - Rivoluzione Culturale. Da li' emigra negli Stati Uniti per ritornare a Pechino nei primi anni '90. Alterna periodi di insegnamento in Cina e negli Stati Uniti. Di recente è stato nominato direttore del dipartimento di architettura al MIT. Negli ultimi vent'anni ha alternato l'insegnamento alla pratica professionale. Di lui ci hanno colpito due cose: il fascino delle sue installazioni e architettura temporanee + la simpatia umana e disponibilita'.

3. Cosa vuol dire il titolo: luce chiara, camera oscura?

A un certo punto dell'intervista Yung Ho ci sta parlando dei suoi maestri e ci racconta di quando Lars Lerup gli dice: "Tu stai lavorando in una camera oscura, dovresti realmente cercare di uscire fuori". Lerup si riferisce ai progetti concettuali di Chang, ai lavori teorici, a tutto quello che non è realmente architettura completa. La frase ci è piaciuta. Luce chiara verso camera oscura inteso come la tensione che è tipica di molti giovani architetti. I lavori sperimentali e di ricerca in rapporto alla professione. Poi, suonava bene e ci piaceva. Piaceva anche a lui e dunque li ci siamo fermati.

4. A chi è rivolto il libro?

Agli studenti e giovani architetti. Di tutti i lavori di Yung Ho Chang si prendono in esame solo le installazioni e le architetture temporanee. Ovvero quel tipo di lavoro che si fa quando si è giovani. Poi, alcuni bravi, continuano tutta la vita, ma questo è un altro discorso. Anche, è un libro per persone curiose, non necessariamente architetti. La formazione di un intellettuale nella Cina di Deng Xiao Ping e nell'America di Reagan, alcuni sui maestri, i riferimenti alla cultura tradizionale, alla politica... è un libro di architettura dove (grazie al cielo) non si parla solo di architettura, l'orizzonte è piu' ampio.

5. Dei dodici progetti di Yung Ho Chang che presentate, quale ritenete essere il più interessante?

Forse il primo, "Trace of Existence". Un portone metallico che scorre e che si piega. Un progetto fatto di nulla. Un po' di falegnameria, un contributo di un qualcuno con il saldatore e si ottiene un gioiello concettuale. Molto secco, essenziale, teso.

6. Come cambierà la didattica al MIT con Yung Ho Chang presiede?

Mmmmhhh... Non conoscendo la didattica precedente (peraltro neppure quella attuale), risulta difficile rispondere. Mentre lavoravamo al libro, durante le interviste, sembrava che lui dovesse diventare direttore della Columbia University. Poi, ha perso in finalissima (il processo per diventare direttore di una di queste grandi università americane sembra molto simile alla Champions League...) e si è rifatto sul MIT. Mah. Questa è una domanda alla quale non sappiamo rispondere.

7. Tre motivi per comprare questo volume...

In primo luogo perchè è un libro Postmedia che ne fa uscire pochi all'anno e che sono tutti belli. Per dire, essere nello stesso scaffale a fianco a "Immateriale/Ultramateriale" di Toshiko Mori e "Postproduction" di Nicolas Bourriaud, è per noi molto piacevole. Secondo perchè è un libro di architettura in cui la parola scritta ha un peso piu' grosso che le immagini. In mezzo a tonnellate di libri iperpatinati e di pura immagine, è non poco piacevole lavorare su delle piste diverse (a scrivere è stato appassionante, speriamo lo sia anche a leggere). Terzo... Per la copertina. Sembra una risposta un po' cazzoncella, però la copertina a noi piace moltissimo. Che se poi uno fa un libro di contenuto e tralascia la qualita' visuale copertina il tutto non funziona. Se un libro non ha una copertina bella, non puo' essere un bel libro. Poi siamo d'accordo che una bella copertina non è garanzia di un bel libro. Diciamo che è un buon inizio...

8. E uno per non comprarlo....Insomma: tirate fuori un difetto, un errore che vi siete promessi di non rifare nel prossimo libro che scriverete...

Il mondo è in questo momento pieno di persone che vanno una volta in Cina, turisteggiano con la Lonely Planet nello zainetto eppoi tornano a casa e scrivono il loro libercolo. Ecco, questi siamo noi. Il libro precedente, quello su Toyo Ito si fondava sui tre anni passati in Giappone, su molteplici incontri, conversazioni, una roba abbastanza approfondita. In questo caso è stato diverso. Due viaggi brevi, molte email, alcuni incontri in Europa. Diciamo che sono mancati quei tre mesi in Cina a vivere il quotidiano, a osservare lo studio dal di dentro. Il libro su Ito era scritto da 'insider' questo è invece la visione dell'outsider. Dopodichè questa condizione era a noi nota, il risultato ci piace, non ci siamo fatti particolari promesse rispetto al prossimo libro. Se per scrivere ogni libro dovessimo trasferirci tre anni in un altro paese, il tutto diventerebbe discretamente laborioso...

9. Il titolo di un altro testo sull’argomento che consigliate ai nostri lettori...

Se siete incuriositi su Yung Ho Chang, c'è quest'altro testo scritto da Laurent Gutierrez e Valerie Portefaix, due francesi bravi e simpatici che vivono ad Hong Kong. "Yung Ho Chang: Atelier Feichang Jianzhu- A Chinese Practice", Map Books Publisher, Hong Kong. Anche, la rivista della Illy, uno degli ultimi numeri è tutto illustrato con lavori degli studenti di Yung Ho. Se siete incuriositi sulla Cina e sulle trasformazioni della parte orientale del mondo, la cosa piu' semplice e utile da fare è quella di leggere con regolarita' l'Economist. Se invece siete appassionati di installazioni... ...qui è piu' difficile... ...facciamo che potreste leggere: "Duri a Marsiglia", di Giancarlo Fusco, Einaudi. Non c'entra nulla con le installazioni però è un libro meraviglioso che va assolutamente letto.



Marco Maretto / Area n.83 / nov-dic 2005

Dopo il volume di Peter G. Rowe e Seng Kuan, intitolato “Essenza e forma. L’architettura in Cina”, lo stesso editore presenta la prima pubblicazione sull’architetto cinese Yung Ho Chang, l’attuale direttore del Dipartimento di architettura al MIT di Boston. Yung Ho Chang è nato a Pechino nel 1956, ha studiato in Cina negli anni successivi alla Rivoluzione Culturale, si è poi trasferito negli Stati Uniti negli anni Ottanta ed ha insegnato in diverse università americane. Nel 1993 è tornato a Pechino e ha aperto l’Atelier Feichang Jianzhu, il primo studio professionale di architettura non statale nella nuova Cina. Nel 1996 ha fondato la nuova Scuola di Architettura presso la Peking University. Negli Usa, nel 2002, ha ottenuto la cattedra che fu di Kenzo Tange, alla Harvard University’s Graduate School of Design. Negli stessi anni ha partecipato all’ottava Mostra di Architettura della Biennale di Venezia e ha promosso, con Steven Holl, la rivista di architettura “32 Beijing-New York”. Con grande dinamismo si è anche affermata l’attività progettuale dello studio FCJZ, che copre un’ampia gamma di interventi, dalla residenza all’architettura museale, dagli edifici pubblici agli oggetti di arredo e al design. Si ricordano anche i numerosi allestimenti, tra i quali la struttura interamente in bambù costruita a fianco del Padiglione cinese alla 51a Biennale d’Arte di Venezia o l’istallazione al Centre Pompidou a Parigi.
“Looking forward, rooted in the past” scrive di lui A. Brown. In possesso, in egual misura, di una sensibilità locale e di una consapevolezza globale, Yung Ho Chang si addentra con perizia in questioni di ecologia, riuso, tradizione e storia, pur mantenendo un’attenta curiosità nei confronti delle contraddizioni della realtà contemporanea. La sua attenzione alla storia emerge chiaramente dall’uso sapiente e consapevole dei materiali tradizionali, in tutte le sue opere: dalla terra compressa al legno naturale, con fini ecologici, economici “and beyond this – come dice A. Brown – beautiful”.
Contestualmente Yung Ho Chang conduce, da anni, uno studio attento sulle tipologie storiche della cultura insediativa cinese ed in particolare, sulla casa a corte chiamata siheyuan. Egli indaga sui meccanismi di modificazione ed intasamento spontanei e sul suo organizzarsi in fitti tessuti urbani (hutong), a metà strada fra universale e particolare, fra una dimensione individuale ed introspettiva del limite familiare e una visione collettiva, ibridata, della corte, dei “chuan men”, ovvero del mondo degli scambi informali tra famiglie, all’interno del recinto domestico, in una società, al contrario, profondamente formale e rigidamente gerarchica.
Si delinea una visione della società e della città contemporanea affatto in contrasto con i concetti di storia e tradizione, secondo una visione continua del tempo e della storia tipicamente cinesi. “La Cina – egli afferma – è un paese che non ha mai separato realmente lo spazio dal tempo. Il tempo non è mai una questione isolata e indipendente (...) non è mai diviso in fasi; in Cina il tempo è un continuo”. Un continuum spazio-temporale di cui il costante operare dell’uomo ha tracciato le strutture e le forme del divenire nel tempo. In un presente dunque profondamente permeato dal passato, Yung Ho Chang imposta il suo concetto di Micro Urbanizzazione, quale strategia d’intervento teso ad unire la dimensione concreta del costruire con la sua esistenza simbolica, relazionando la scala dell’architettura con quella più ampia della città e del territorio.
Come bene emerge dalle pagine, la sua attuale intensa attività progettuale affonda le sue radici nei recenti cambiamenti socio-politici in atto in Cina e nelle nuove dinamiche relazionali tra Oriente e Occidente. Nel libro vengono analizzati i suoi lavori temporanei (installazioni o allestimenti), che sono una chiave di lettura privilegiata per iniziare a conoscerne il pensiero sull’architettura e sulle trasformazioni del mondo globale. In questo senso, le sue parole (nelle interviste degli autori e di Hans Ulrich Obrist) non sono riferite solo all’opera sin qui compiuta con l’Atelier Feichang Jianzhu, quanto piuttosto alla definizione di una possibile strategia di azione futura.
Al di là di molti luoghi comuni, Yung Ho Chang getta un ponte fra passato e futuro, fra natura e artificio, tra l’universale del tempo storico ed il particolare del quotidiano, collocando il suo meditato lavoro nella difficile confluenza tra tradizione e contemporaneità.


Roberto Barzi / nonsolocinema / 06-2007

“All’artista, ci credo. All’opera no.” Marcel Duchamp

“Il desiderio di vincere, il desiderio di arrivare a degli obiettivi, la necessità di sfruttare completamente il proprio potenziale assoluto… Queste sono le chiavi che apriranno la porta dell’eccellenza personale.” Confucio.


Nei due aforismi citati c’è tutto il significato di un libro sull’architettura cinese post-comunista: da un lato il gioco neodadaista, dall’altro la spiritualità tipica di un architetto orientale, ma forse sarebbe più giusto definirlo un artista d’opere architettoniche.
Il testo intitolato metaforicamente Yung Ho Chang - Luce chiara, camera oscura, a cura di Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti, è diviso in due sezioni: la prima composta di tre interviste e la seconda da alcuni capitoli che affrontano sia la grammatica del linguaggio progettuale di Yung Ho Chang - interpretando i materiali che usa solitamente - sia la documentazione dei suoi progetti, basandosi solo su installazioni per mostre. Una metodologia per scoprire come l’architetto/artista concepisce, progetta e edifica le sue opere.
Si potrebbe commentare che il testo tratta essenzialmente del Tao dell’architettura, nella quale passato e presente s’intersecano, legandosi a loro volta con il futuro. Tao che significa “La Via” o “Il Sentiero” - spesso anche tradotto “Il Principio” - è uno dei concetti essenziali della filosofia cinese. È l’eterna, rigorosa e fondamentale energia che circola in tutta la materia dell’Universo. Per dirla con un solo termine, il Tao «E’». Da qui derivano lo “Yang” il principio positivo maschile, rappresentato col bianco e lo “Yin” il principio negativo femminile, rappresentato col nero. Per meglio intendersi si legga l’inizio del capitolo Dodici progetti di Yongh Ho Chang e Atelier Feichang Janhzu. 01. Trace of Existence. Pechino 1998: “Una porta per entrare nella luce, una porta per entrare nel buio. In Occidente esiste una dicotomia tra quelli che fanno e quelli che pensano: riguardo alle interviste e i commenti di Yung Ho Chang, forse questo fenomeno capita anche in Cina. Ma, a prescindere dalle latitudini e longitudini, il suo universo è quello dove per capire le cose c’è un grandissimo investimento in termini di ’fare’. Tuttavia non è il ’fare’ dell’artigiano, è un fare profondamente intellettualizzato, come fosse un cruciverba o un rebus in termini di congegno spaziale [...] Leonardo ci dà una possibile indicazione: "Dove lo spirito non lavora con la mano, non c’è arte" [...].”
Ad un certo punto i curatori gli chiedono di ricordare le sue esperienze universitarie in Cina e in America. Yung Ho Chang allora parla, fra l’altro, di Lars Lerup suo ex docente: “Nel 2002 sono tornato a Berkeley come insegnante. Ho lavorato a stretto contatto con lui per due anni. Un giorno, dopo pranzo, sotto l’intensa luce californiana stavamo parlando e lui dice una frase che non riesco a comprendere immediatamente. In quel periodo facevo cose che erano più vicine all’arte che all’architettura: progettazione per concetti, lavori teorici, installazioni. Mi disse "Tu stai lavorando in una camera oscura, dovresti realmente cercare di uscire fuori". Non era affatto facile comprendere questo concetto della camera oscura […] In seguito l’ho capito molto bene […] voleva suggerire che bisogna affrontare la sfida della professione, non limitarsi al coinvolgimento in attività teoriche.” Sempre discutendo delle sue esperienze architettoniche, gli interlocutori gli domandano: “Abbiamo anche letto Planned Assault, il libro di Lars Lerup nel quale si trovano i progetti per la “Nofamily House”, la “Love/House” e la “Texas Zero House”. Peter Eisenman ha scritto che se le case di Le Corbusier erano pensate come macchine per abitare, quelle di Lerup sono ’macchine per sognare’. Trappole dadaiste, piazzamenti, cambi improvvisi sono tutti parte dei suoi strumenti progettuali, mentre le sue fonti di ispirazione vanno cercate nella poesia, nella filosofia, nella psicoanalisi […] C’è questa frase scritta su una casa di Lerup: "Le sue creazioni invitano l’abitante o il visitatore momentaneo a lasciarsi dietro gli schemi della sua vita quotidiana, per entrare per entrare nell’immaginifico mondo dell’architettura". Potremmo applicare una frase come questa anche nei tuoi lavori?” L’artista/architetto risponde: “Sarebbe bello. Questo è l’aspetto magico dell’architettura.” Nella replica di Yung Ho Chang c’è tutto il suo ammaliante universo progettuale, che non si limita solo ad elaborare abitazioni, centri urbani e musei - come fanno gli altri suoi colleghi -, ma concepisce l’architettura, il design - nel libro accenna ad un suo progetto di rielaborazione, soprattutto grafica, di un’automobile per conto della Volkswagen - e l’urbanistica a livello filosofico e in parte ludico. Non però come un gioco, bensì alla maniera di Marcel Duchamp: un artifizio per penetrare più a fondo nell’animo dell’uomo e allo stesso tempo per fargli comprendere che non basta abitare, vivere in un qualsiasi ambiente, ma bisogna guardare, osservare, percepire la sua essenza. La stessa che fa, o per lo meno dovrebbe far sognare chi vi abita, vive, lavora, gioca, studia. Insomma: l’atipica architettura di Yung Ho Chang, che fra gli architetti cinesi dell’ultima generazione è indubbiamente uno di quelli sotto più “stretta osservazione”, basti ricordare la progettazione di una città-museo e che fra il materiale abitualmente usato, in particolare per le sue “installazioni”, ci sono il bambù, la carta di riso, scatole e ruote di biciclette - con queste ultime ha ideato mensole per libri -, tutti prodotti tipici cinesi che, pur adoperati tecnicamente, appartengono prima di tutto alla tradizione orientale.
Dei dodici progetti di Yung Ho Chang che i curatori descrivono, il più interessante senza dubbio è Trace of Existence: una “installazione” formata da un portone metallico che scorre e che si piega. Un prodotto composto di pochi, ma essenziali elementi, solo un po’ di lavoro di falegnameria e si è così ottenuta un’opera d’arte concettuale: disadorna, essenziale, “aperta”. Nato nel 1956 a Pechino, ha vissuto per quindici anni negli States prima come studente e in seguito da docente. Nel 1993 sceglie di ritornare nel suo Paese. Con la moglie Lijia Lu fonda il primo studio privato su suolo cinese, battezzandolo “Atelier Feichang Jianzhu”. Tradotto in italiano potrebbe significare “architettura insolita” oppure “costruzione irregolare”. Irregolare, ma per quale motivo? L’architetto cino/americano si nutre di un presente che si basa su una profonda cognizione del passato. Con la stessa metodologia Yung Ho Chang realizza la “Split House” (2002), nella quale fa uso di accostamenti fra materiali vecchi e odierni: “Ho usato legno e cemento in modo da fondersi appunto con il paesaggio, così che quando uno vi si avvicina non ha la sensazione che la casa sia nuova ma faccia parte già da tempo della collina, sulla quale non sono intervenuto. Questo è molto orientale”. Affermando la propria filosofia di concepire l’architettura quale forma del tempo, ci sia consentito di poter parafrasare il libro di Gorge Kubler La forma del tempo. Yung Ho Chang è un vero architetto contemporaneo poiché riesce a combinare elementi diversi e anche a essere provvisto di una sensibilità composita e di una concezione complessiva del proprio lavoro. Basti assaporare l’intervista di Hans Ulrich Obrist contenuta nel testo: “Per me la globalizzazione è un fenomeno molto interessante, questo non perché qui l’economia sia in pieno boom o perché la Cina stia diventando un soggetto più importante nelle dinamiche globali. Piuttosto, dal punto di vista professionale, quello che mi interessa è quale tipo di scambio culturale sia ingenerato dalla globalizzazione”. Yung Ho Chang però è anche molto interessato ad interagire con la contemporaneità, grazie ai suoi poliedrici interessi, non da ultimo il campo dell’arte. Nella prima intervista di Rachaporn Choochuey e Stefano Mirti, riferisce della sua immensa passione per la pittura e ammette che solo la propria incapacità tecnica lo ha portato a mutare corso ai propri interessi. Difatti i nomi di artisti del calibro di Duchamp, John Cage e James Turrell sono citati negli scambi di idee con i suoi intervistatori. Non solo, Yung Ho Chang ha progettato lo “SMOCA-Small Museum of Contemporary Art” per l’artista e amico Cai Guo-Qiang. Dopo l’incontro con Hou Hanru e Hans Ulrich Obrist ha contribuito a progettare l’installazione di una mostra importante come Cities on the Move (1997- 1999). Alla “Biennale” di Venezia del 2003 si è potuta osservare una sua struttura di bambù che è servita come sede del padiglione cinese.
Luce chiara, camera oscura si concentra particolarmente su questo tipo di attività dell’architetto, sulle proprie riflessioni e sulla metodologia con cui si interpreta quotidianamente assieme ai propri collaboratori - spesso colleghi già affermati, ma anche giovani e promettenti allievi - non solo nelle realizzazioni concrete, ma in particolare per mezzo di mostre e “installazioni”. A chi è rivolto il saggio? Agli studenti e ai giovani architetti, anche se di tutte le opere di Yung Ho Chang sono prese in esame solo le “installazioni” e le architetture temporanee. Soprattutto è un testo per persone curiose - non è obbligatorio essere degli specialisti del campo -, poiché racconta della formazione di un intellettuale nella Cina di Deng Xiao Ping e negli USA di Reagan, parla di alcuni suoi maestri, facendo dei rimandi alla cultura tradizionale cinese e alla propria neo-politica, soprattutto commerciale. Un libro d’architettura dove non si discorre solo di architettura: il suo orizzonte è assai più ampio. Un testo in cui la parola scritta ha più peso delle sue pur eleganti e significative immagini.
Se poi i lettori di questa recensione risultassero interessati a Yung Ho Chang, c’è un altro bel volume che lo riguarda, scritto da Laurent Gutierrez e Valerie Portefaix, due francesi che vivono ad Hong Kong: Yung Ho Chang: Atelier Feichang Jianzhu - A Chinese Practice, “Map Books Publisher”, Hong Kong.


Marco Brizzi / Progetti & Concorsi / 09-2008

Intervista a Yung Ho Chang: "L'architettura è metodo, non rivoluzione".

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