tina modotti

roberta valtorta

dalla prefazione di Patricia Albers


“La misteriosa visitatrice Miss Tina Modotti”. Così recita il sottotitolo che annuncia l’entrata nel suo unico film da protagonista. Come quel lungometraggio muto, la sua storia risulta sfocata, affascinante e scabrosa. Di lei conosciamo molti aspetti sorprendenti: il fotografo Edward Weston le fece un famosa serie di ritratti e di nudi, il pittore messicano Diego Rivera dipinse Tina nei suoi affreschi, e la biografia dell’agente comunista Vittorio Vidali la ritrae come una devota rivoluzionaria. Tuttavia, a eccezione delle immagini eccellenti che uscirono dalla sua macchina fotografica negli anni Venti e di una serie di lettere straordinariamente espressive a Edward Weston, è stato difficile recuperare delle testimonianze dirette di Tina. Il suo diario e gran parte della sua corrispondenza si sono persi e lei non sentì mai la necessità di lasciare un resoconto della propria vita per i posteri.

Ho scoperto Tina Modotti vent’anni fa attraverso le sue fotografie. Indagando sulla sua vita e sul suo lavoro (non sapevo ancora a che scopo), scoprii la sua forza d’animo, il suo temperamento poetico, il coraggio nell’affrontare la povertà e il dolore, il nomadismo e la drammatica caduta in disgrazia. Incontrando i suoi amici, è stata una sorpresa vedere quante lacrime velassero i loro occhi invecchiati nel ricordare episodi di decenni prima. Poi, una domenica mattina, il 24 aprile 1994, guardai Tina sotto una luce sorprendentemente diversa.

Il materiale biografico ufficiale riporta il matrimonio di Tina Modotti col grande Roubaix de l’Abrie Richey, detto Robo, un enigmatico artista di origini franco-canadesi. Pensavo che, scoprendo qualcosa di più sul marito di Tina, avrei portato alla luce la sua trasformazione, nel periodo che la coppia aveva trascorso insieme, dall’immigrata italiana senza titolo di studio all’attrice mondana pronta a diventare fotografa. Avevo iniziato le mie ricerche su Robo in Quebec, ma presto scoprii che era nato e cresciuto in Oregon. Una serie di telefonate culminarono in un viaggio a Roseburg, in Oregon, a casa del cugino di secondo grado di Robo. Quel mattino di primavera, poco prima delle nove, mio marito ed io imboccammo l’interstate 5 per un breve viaggio in auto verso la graziosa campagna collinare a ovest. Il sole splendeva e sembrava una domenica di Pasqua, con l’erba verde brillante ai lati della strada e gli agnelli che pascolavano nei campi. Tina non andò mai in Oregon, ma sentii comunque un leggero brivido di contatto mentre ci avvicinavamo alla deliziosa fattoria disseminata di erba e trifogli, con la scritta che annunciava, in una variante del secondo nome di Robo, Ranch La Brie.

Ruth e LaBrie Ritchie furono estremamente ospitali, e, dopo una conversazione lunga e illuminante sulla loro famiglia, la coppia ci mostrò due bauli, che il bracciante aveva portato giù dal solaio quella mattina presto. Uno era pesante ed elegante allo stesso tempo, costruito in metallo con venature in legno, foderato con carta decorativa e dotato di un ripiano estraibile per i pennelli e un cavalletto pieghevole. L’altro, una cassa solida di quercia, sembrava fosse arrivato in occidente un secolo prima su un carro del far west. Erano entrambi scricchiolanti, odoravano di legno vecchio, ed erano ricolmi di fogli, fotografie, riviste, e ricordi. Tra gli oggetti dell’Esposizione Panama-Pacific di San Francisco del 1915, copie sbrindellate di The Smart Set, bandierine del liceo, album, pacchi di ricevute, telegrammi, documenti legali... notai la scrittura di Tina Modotti su una busta.

I Ritchie insistettero, così io e mio marito portammo i bauli a casa, in California dove, seduta in soggiorno, ne lessi i contenuti per tre giorni fino a notte fonda. Come il genio dalla lampada, da quei bauli venne fuori, dopo più di settant’anni, la vita di Tina con Robo: un alternarsi di momenti drammatici e di periodi in cui non accadeva praticamente nulla. Scorrendo le pagine lise di due copie del Rubáiyát of Omar Khayyám, che Robo amava leggere ad alta voce a Tina, e in alcuni album, trovai molte fotografie di lei, alcune belle, altre frivole, altre sfocate, come accade in tutte le famiglie.

Come mi aspettavo, questi documenti offrivano tante risposte, ma anche domande e mi ci vollero anni di ricerche per carpirne i significati. Scoprii, ad esempio, che il matrimonio di Tina con Robo non era mai stato formalizzato legalmente.

Molti mi hanno chiesto se i bauli fornissero le risposte a domande cruciali sulla vita di Tina Modotti, come ad esempio quando e perché si era data alla fotografia, perché la abbandonò all’improvviso, come morì. Non ho trovato risposte dirette. Tuttavia, le lettere a Tina e su Tina e, in particolare, circa trentasei in suo possesso, offrono una visione più chiara di come pensasse e rivelano il significato che lei diede a determinati eventi. Una serie di messaggi da Tina alla famiglia di Robo (di cui mancano le risposte) racconta la storia della tragica morte di lui in Messico e del trasferimento di lei nel Paese dove si sarebbe scoperta fotografa. Tra le righe si coglie l’evoluzione psicologica durante i mesi drammatici e dolorosi che la portarono al margine di una nuova vita.

I bauli contenevano anche un centinaio di immagini di Tina Modotti, perlopiù piccole stampe a contatto che erano regali alla famiglia di Robo. Alcune di esse sono riprodotte in questo libro, insieme a immagini della famiglia e altre fotografie scattate da Tina, o che la ritraggono. Robo aveva amato molto il Messico e Tina parve riconoscere il proprio debito verso il suo successivo compagno regalando alla sua famiglia queste foto, di indigeni e operai messicani, a cui lei teneva profondamente. Alcune di queste immagini sono famose; altre, a quanto pare, si sono perse da decenni. Molte sono rovinate ai lati e sottotitolate frettolosamente, ciononostante è sorprendente come cancellino il tempo. Mi fecero venire in mente l’immedesimazione che Tina creava con la sua irresistibile visione artistica: ci offrono la presenza indimenticabile di persone lontane, forse, nel tempo e nello spazio, ma mai estranee.

Scrivere questo libro ha significato, certamente, riassumere in parole il mucchio di oggetti e scritti contenuti nei bauli. Nel farlo, talvolta ho meditato sui pensieri di Tina, scritti a Edward Weston qualche anno dopo la morte di Robo, mentre rovistava tra i propri oggetti, alcuni dei quali erano conservati senza dubbio in questi bauli. Disse di averne distrutti parecchi, con la speranza di guidare i propri averi “attraverso una metamorfosi, da cose concrete ad astratte, per quanto mi riguarda, perché io possa continuare a possederli nel mio cuore per sempre…”.

Nel ritrarla, il mio tentativo è stato quello di tenere una mano, metaforicamente, sugli oggetti consunti dei bauli. Perché ritengo che a contraddistinguerla siano stati i suoi sforzi incessanti, talvolta maldestri e altre volte straordinariamente riusciti, di trascendere la quotidiana mancanza di forma, per “plasmare la vita”, come diceva lei, rifiutandosi di accettare sia il proprio destino che quello altrui. Condividere la propria visione della bellezza e della dignità umana è l’evidente regalo di Tina Modotti.

Patricia Albers

 
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