Gerhard Richter In questi testi riuniti da Obrist, l'intero percorso dell'artista di Dresda si può leggere come il luogo di tensione tra una pratica quotidiana che attacca i dispositivi culturali della pittura e l'autoriflessione sui confini stessi, teorici e operativi, del dipingere. STEFANO CHIODI Un teschio. Una candela. Una grande superficie grigia. Un paesaggio sfocato. Un fuoco artificiale di colori o lo srotolarsi monotono di un campionario di tinte. Una serie di volti in grisaille. La possibilità di isolare un singolo e prevalente modo appare nell'opera dell'artista tedesco Gerhard Richter impresa votata in partenza al fallimento. Non uno sviluppo omogeneo, coerente, non un progresso, o una depurazione, ma piuttosto lo svilupparsi parallelo di serie, di bruschi ritorni e fulminee interruzioni. L'urgenza della selezione contro il piacere della continuità. Forse la sua pittura può essere vista come l'estremo baluardo a difesa di un territorio invaso e saccheggiato, ma probabilmente ancor più giusto è scorgervi un'alterità non rispetto al mondo, alla tecnica, al ferro e al sangue della storia, ma precisamente al proprio altro mitico e senza tempo: una necessità di sottrarsi dall'arco di una vicenda ideale, di denaturarsi e contaminarsi e così facendo saggiare la disponibilità dell'immagine dipinta (e la sua potenziale inarrestabile deriva nei dipartimenti del feticcio e del déja vu rassicurante), in un'estrema verifica della sua verità e dei suoi poteri. Alla comprensione del complesso itinerario di Richter dà un efficace contributo la raccolta di scritti e interviste ora disponibile in italiano (La pratica quotidiana della pittura, a cura di Hans Ulrich Obrist, traduzione di Elena Molinaro, Postmediabooks, Milano 2003, pp. 240, _ 16,60), in cui è possibile seguire puntualmente l'articolarsi della visione dell'artista nato a Dresda nel 1932, una delle figure chiave, con Baselitz, Kiefer e Polke, della pittura tedesca contemporanea. "La pittura è uno sforzo cieco, quasi disperato, come quello di una persona abbandonata, vulnerabile – scrive nel 1985 –, dunque io sono cieco come la natura che agisce come può". Ma questa inevitabilità può e deve essere declinata come attività, affrontandone se necessario lo spaesamento, i limiti e i paradossi, soprattutto in rapporto alla fotografia, che come pratica e struttura culturale è la componente decisiva del percorso di Richter: "A un certo punto – dichiarava nel 1972 – ho cominciato a guardare la fotografia in modo diverso, come un'immagine [Bild] che mi offriva una nuova prospettiva, libera da tutti i criteri convenzionali. Non aveva stile, composizione, giudizio. Per la prima volta non c'era nient'altro che l'immagine pura. Questo è il motivo per cui volevo non usare la fotografia come mezzo pittorico, ma al contrario usare la pittura come mezzo fotografico". La pittura, il dubbio, il simbolo, vanno così incontro all'impronta, all'"indice", alla prova. Se vi è un motore potente e segreto nel lavoro di Richter, questo è allora il suo monumentale Atlas, una raccolta di migliaia di fotografie ordinate su grandi fogli secondo l'ordine strutturale dell'archivio. Vi sono riuniti materiali disparati, dagli scatti amatoriali alle foto di famiglia, ma anche immagini pubblicitarie o di cronaca, paesaggi, nudi, da cui sono stati tratti i suoi quadri o che hanno per così dire costituito il paesaggio visivo, l'orizzonte iconografico in cui si è iscritta la sua pittura, il palinsesto o la rete di sottotesti, come suggerisce Jean-François Chevrier, che lega un dipinto a tutti gli altri. Viene certo in mente l'organizzazione delle tabelle scientifiche e degli apparati didattici, e anche il grande progetto Mnemosyne di Aby Warburg o le tavole fotografiche di Hannah Höch e Aleksandr Rodcenko: ma se negli anni venti la fotografia era stata utilizzata in una prospettiva di "liberazione", le immagini di Richter fanno trasparire un generale scetticismo nei confronti di ogni potenziale emancipatorio. È piuttosto, come ha scritto Benjamin Buchloh, la reazione a una "crisi di memoria" legata alla specifica condizione della Germania postbellica e alla vicenda personale di Richter, fuggito nel 1961 dalla DDR, in cui convergono il disconoscimento collettivo della storia, la repressione del passato recente e il travolgente cambiamenti di funzione dell'immagine fotografica messi in opera nella società di massa. Atlas pone la questione del ruolo della fotografia nella trasmissione e nel riconoscimento della memoria e dell'identità collettiva e al tempo stesso il problema di come si possa concepire la pittura di fronte alla definitiva distruzione dell'aura. Questo raccordo tra immagine pittorica, memoria storica e identità personale affiora ad esempio in una delle serie più note del pittore, i 48 Ritratti esposti per la prima volta alla Biennale di Venezia del 1972. Nei volti di scrittori, scienziati e filosofi, emergono i contorni di una paternità ideale, al tempo stesso collettiva e personale. Sono ritratti "classici, tipici come figure di enciclopedia", dichiarerà l'artista nel 2001, che compongono una genealogia offerta alla Germania (e all'Europa) contemporanea in quello che appare come uno sforzo di risarcimento delle ferite culturali e morali inflitte dalla tragedia nazista, allo stesso modo in cui un'altra serie famosa, 18 Oktober 1977 (data della tragica morte in carcere dei componenti della banda Baader-Meinhof), rappresenta il tentativo di riflettere sugli esiti raggelanti e autodistruttivi delle aspirazioni di un'intera generazione di giovani europei, recandovi, scrive Richter nel 1988, "l'espressione di un sentimento muto, il tentativo quasi disperato di dare forma a sentimenti di compassione, dolore e orrore". Quel che appare evidente in tutti i testi raccolti nel volume è quanto la voce dell'artista non solo accompagni le immagini, ma ne costituisca quasi un doppio problematico, come se la pittura accadesse nella parola almeno quanto sulla tela. L'intero percorso di Richter può essere considerato in effetti come il luogo di una tensione tra esigenze e fini non omogenei, tra una disposizione autoriflessiva, che saggia i confini teorici e operativi del dipingere, e una pratica quotidiana che attacca e dissolve i dispositivi culturali della pittura, dal fondamentale confine tra astratto e figurativo al disinteresse "ottico" per la narrazione e l'allegoria, in quello che appare un vitale dissidio tra l'esigenza di attingere agli strati originari della personalità e la volontà di indagare il nesso culturale tra natura e struttura. "Sacrificarsi all'obiettività", come scrive l'artista, sarà allora necessario per soddisfare innanzitutto l'esigenza di una riappropriazione dell'immagine come strumento cognitivo, come spazio in cui l'eterno presente della fotografia è svelato nella sua sostanza di morte e l'eterno passato della pittura è sottoposto alla corrosione di una non pacificata attualità. |
|||
postmedia books |