Stefano Chiodi / Alias (suppl. Il Manifesto)/ 24-06-2006

Secondo il celebre detto di Karl Marx, la storia si ripete, la prima volta in forma di tragedia, la seconda come farsa. E per molte e ben fondate ragioni, non ultimo il discredito in cui giace l’intera e già incalzante rubrica del futuro, di ritorni, di sdoppiamenti, di repliche, copie, cloni, reenactment, di ripetizioni appunto, è come si sa ingombra da decenni la scena delle arti visive. Tempo particolarmente ingeneroso il nostro, e falso, cioè infedele alla sua origine rivoluzionaria, sembrerebbe dunque, a seguire l’analisi di Peter Bürger nella sua influente Teoria dell’avanguardia: la trasgressione si è addomesticata, la provocazione è diventata patetica. L’iconoclastia non spaventa più, nessuno insorge per le innocue provocazioni degli artisti, non si grida alla profanazione. Tutto fa spettacolo, tutto è merce. Il fallimento storico della prospettiva dell’avanguardia coinciderebbe insomma col trionfo del sistema di valori, di pratiche e di consenso che le società postindustriali hanno elaborato nel corso dell’ultimo trentennio, di pari passo con la rivisitazione reazionaria della modernità, con la liquidazione delle sue istanze politiche, col trionfo di un revisionismo cinico che corrode e guasta – in nome di una nominale e assolutoria “equivalenza” – il sottofondo critico e la richiesta di verità che del progetto di liberazione moderno erano la fondamentale ossatura.
Di fatto, interrogarsi oggi sulle ragioni e sui modi dell’esperienza artistica contemporanea vuol dire affrontare inevitabilmente questi nodi, convocare in tutta la loro scomoda urgenza domande che puntano a quello strato problematico in cui si mette in gioco la responsabilità politica e culturale di artisti e critici d’arte. È quanto fa Hal Foster nel suo Il ritorno del reale (Postmedia Books, Milano 2006, traduzione di Barbara Carneglia, postfazione di Emanuela De Cecco, pp. 256, euro 21), tradotto ora in italiano a dieci anni dalla sua uscita negli Stati Uniti. Quella di Foster è delle voci più originali e influenti nel panorama della critica contemporanea: allievo di Rosalind Krauss, collaboratore della rivista “October”, studioso dagli interessi vasti e ramificati, sempre in equilibrio tra ricerca storica e indagine dell’attualità, fa parte di quella generazione di studiosi che in America e in Europa (penso soprattutto a Georges Didi-Huberman) ha stimolato negli ultimi vent’anni un profondo ripensamento insieme dell’eredità moderna e dello statuto dell’immagine, in una febbrile opera di decostruzione che ha scoperchiato i sotterranei del modernismo sino a presentarci un quadro crudelmente veritiero, e di spietata storicità, dell’illusione di coerenza, di naturalità, tipica di quella tradizione umanista e idealista che aveva assegnato all’arte il compito di rispecchiare le proprie ambizioni di perennità. Nel libro, Foster propone di leggere la relazione tra avanguardia e neoavanguardia, tra rottura moderna e ripetizione postmoderna, anziché come un processo unidirezionale e irreversibile, come derivazione o come tradimento, nei termini di una continua spinta in avanti e indietro che percorre tutta l’arte del Novecento, come se il futuro fosse di continuo anticipato e il passato incessantemente ricostruito. Il modello è quello della retroazione: usando la nozione freudiana di “azione differita” (Nachträglichkeit, “posteriorità”, après coup) – l’interrogazione-provocazione retroattiva che rovescia e complica ogni schema di prima e dopo, di causa ed effetto, di origine e ripetizione –, Foster ripercorre la vicenda artistica dal 1960 in avanti mostrando come le neoavanguardie reinterpretino (e riaprano) il progetto delle avanguardie, rimettendone in circolazione i risultati: Warhol che si confronta col ready-made di Duchamp nel nuovo orizzonte della società di massa, così come gli artisti minimalisti che rivisitano Brancusi, Schwitters, Rod?enko e ragionano sulla logica produttiva del tardo capitalismo, o ancora Bruce Nauman e Gordon Matta-Clark che estendono al corpo e allo spazio urbano un’esigenza di risignificazione, si muovono tutti in una logica di sconnessione e riconnessione che modifica e riconfigura insieme presente e passato, ne scopre le potenzialità latenti riaprendo i termini della comprensione, come facevano in quegli stessi anni sessanta, negli orizzonti paralleli della filosofia, della psicoanalisi e della teoria politica, Foucault, Lacan e Althusser.
Ma quale reale torna, allora? Così come il “ritorno del rimosso”, cui Foster ovviamente allude, è un processo, una dinamica che scuote la soggettività, la espone, la mette a rischio, ma anche la risveglia e la dinamizza, il reale che è qui un reale traumatico, che segna il punto di passaggio dalla contemplazione al contatto e agisce attraverso la ripetizione. Ancora Warhol, dunque, con le sue icone moltiplicate (“Voglio essere una macchina”, ci dice l’artista) che insieme schermano e producono il trauma del reale. E certo per noi, dobbiamo anche dire, noi abitanti lo spazio politico post-2001, il reale che torna è ancora più letteralmente traumatico perché si è nel frattempo passati da una disponibilità allo choc, dalla sua simulazione, o anticipazione, alla necessità di una sua elaborazione, cioè alla richiesta di una ricostruzione che lo renda di nuovo parlabile, che non lo evacui, depotenziandolo, ma che ne aggredisca precisamente l’apparire. L’arte dello choc, com’è stata definita la stagione post human di Paul McCarthy, Damien Hirst o Kiki Smith, con la sua passività sadomasochistica, la sua regressione nell’informe e nell’abietto, si arresterà alla fine, ma illuminandola anche, sulla soglia dove irrompe la guerra come stato non più solo possibile, ma inverato in un’irrimediabile demoniaca fattualità, nella sua però ora immaginabile pulsione di annientamento allegorizzata nei corpi umani grottescamente disfatti, ridotti a escrementi, a pasto osceno di cani randagi, che la cronaca di questi anni ci offre instancabile.
Guardare alle esperienze artistiche del passato, ci ricorda Hal Foster, vuol dire istituire una specie particolare di relazione dialettica e retroattiva con le loro pratiche e i loro discorsi. Se l’adesso è ciò che senza posa riconfigura il passato, cioè il futuro preavvertito nelle opere cui la nostra esperienza attuale dà voce, fare storia vuol dire in effetti (e inevitabilmente) fare critica. E questo a sua volta solleva la questione proprio del ruolo (e della responsabilità) della critica nel campo dell’arte contemporanea, un mondo largamente amministrato da tecnici dell’intrattenimento e della promozione e unificato dal tacito consenso alle logiche di uno schieramento neoconservatore che dagli anni ottanta in poi ha non solo dettato in Occidente i termini dei conflitti culturali ma ha anche efficacemente manipolato a proprio vantaggio l’immaginario collettivo. Nel restituire energicamente alla critica dell’arte più recente un potenziale teorico e politico, il libro di Foster ci invita ad estendere e diversificare il nostro orizzonte visivo e al tempo stesso a rivolgerci alle immagini come a esperienze che fondamentalmente disarticolano e mettono in disordine il pensiero e l’identità: contro i fantasmi reazionari del ritorno e dell’ostruzione, l’arte non smette di trasmettersi come uno scuotimento inatteso dei paradigmi della nostra esperienza. L’origine è davanti a noi.


  Christian Caliandro / Exhibart/ 27-09-2006

A ben dieci anni dalla pubblicazione in lingua inglese, viene finalmente tradotto Il ritorno del reale, uno dei testi fondamentali della critica d’arte postmoderna. Un testo che parla di rappresentazioni e simulacri, di realismi e concettualismi. E che ci aggiorna su un dibattito critico altrove già digerito.

È un evento da salutare certamente con interesse, dato che il ritardo della divulgazione nel nostro Paese di un’intera generazione di studiosi in prevalenza statunitense è ormai ventennale –e pensiamo non solo ad Hal Foster, ma anche a Thomas Crow, a Douglas Crimp e allo stesso Fredric Jameson. Ci siamo persi un intero dibattito epocale senza neanche accorgercene.
Il testo di Foster è di quelli che aiutano a rimetterci in pari e a comprendere come si è evoluto il discorso sull’arte contemporanea negli ultimi decenni. La tesi fondamentale del libro è che non solo l’avanguardia alla fine del Novecento sia stata viva e vegeta –contro la vulgata che la vorrebbe morta e sepolta con il concettualismo-, ma che essa abbia saputo rifondarsi e vada identificata con la posizione ancora una volta più feconda e innovativa.
Punto di partenza sono gli irrinunciabili anni Sessanta, autentico incunabolo del postmoderno. Nel primo capitolo, Foster guida attraverso un ripensamento generale della neoavanguardia e della sua azione retroattiva rispetto all’avanguardia storica, quasi agli antipodi rispetto all’interpretazione canonica di un classico come Teoria dell’avanguardia (1974) di Peter Bürger. Di qui, il concetto di ‘retro-azione’ si allarga all’intera comprensione critica dell’arte postmoderna, presentandosi, nella volontà dell’autore, come una sorta d’antidoto mentale alla retroversione tipica dell’arte all’altezza del 1996 (e, aggiungiamo, pure dei dieci anni successivi: anche per questo è così importante leggere queste pagine).
Il ritorno del reale di cui parla Foster è quello che si intreccia, a partire proprio dalla pop art, con l’esaurimento progressivo della spinta modernista. Ciò che Foster lamenta nella lettura critica dell’opera da Warhol in poi è la La copertina del saggio di Hal Foster divisione rigida tra i due regni dell’immagine: rappresentazione e simulacro. L’analisi dettagliata di alcuni fenomeni artistici degli ultimi trent’anni –dal fotorealismo, giustamente ribattezzato superrealismo, di un Richard Estes all’appropriazionismo di un Richard Prince, fino a Cindy Sherman e a Mike Kelley– è perciò funzionale a descrivere una rifondazione e una ridefinizione del realismo che può essere riconosciuta, a ragione, come la linea fondamentale dell’arte contemporanea.
Uno dei pregi fondamentali della scrittura di Foster è quello di pensare sempre la storia dell’arte in funzione del presente, e viceversa. La comunicazione tra i differenti livelli temporali è talmente attiva da moltiplicare continuamente le risposte e, contemporaneamente, le domande, senza però cadere mai nell’a-storicità o nella gratuità. Questa traduzione de Il ritorno del reale ha dunque una doppia funzione: da una parte ci mette in contatto con una tradizione critica e teorica che da noi stenta ancora ad attecchire, e dall'altra ci dice molte cose su come un periodo ormai storicizzabile -gli anni Novanta- abbia modellato i periodi precedenti.


Federico Luisetti / Agalma / 09-2006

Il ritorno del reale è un tour de force saggistico che applica un ordine teorico alle vicende artistiche degli ultimi trent’anni e al contempo uno dei più complessi macchinari interpretativi architettati dall’attuale critica culturale nordamericana. Sulla base di un intreccio di periodizzazione e concettualizzazione, Foster rilancia l’operazione tentata negli anni Ottanta da Fredric Jameson nell’Inconscio politico, la sintesi di strutturalismo e storicismo. Mentre in Europa la tradizione francofortese e il post-strutturalismo francese hanno percorso strade parallele, negli Stati Uniti i due orientamenti entrano in risonanza sotto il segno di Walter Benjamin, un autore al quale Foster e in generale il gruppo di «October» non cessano di richiamarsi, recuperando la sua commistione di critica militante e speculazione ontologica, di politicizzazione estetica e filosofia della differenza. Pur condividendo la visione post-strutturalista del presente come differimento, della storicità come ripetizione e della soggettività come effetto, Foster contrappone la “critica” all’inefficacia politica della teoria francese. Anche in assenza di uno spartiacque gnoseologico fra soggetto e oggetto, è necessario a suo avviso mettere in salvo la distanza critica, introducendo un’alternativa alla differenza intesa come positività dispiegata (Deleuze) e come mise en abyme (Derrida). L’interrogativo a cui risponde Il ritorno del reale riguarda perciò la legittimità e la natura della critica post-strutturalista, nella doppia accezione kantiana e marxiana.
Il ritorno del reale è il risultato della sovrapposizione di un’innovativa genealogia dell’arte contemporanea al ripensamento degli strumenti della critica. Il disegno è imponente e il risultato all’altezza delle intenzioni: mettendo in scena un dialogo serrato fra posizioni teoriche e pratiche artistiche, i sette capitoli del libro portano alla ribalta l’inestricabile implicazione di avanguardie e neoavanguardie, guidando il lettore nel panorama estetico postmoderno e convincendolo ad abbracciare senza riserve l’attuale inscrizione dell’arte nel corpo, nei contesti espositivi e nella società. Alla nostalgia per la qualità formale dell’arte modernista Foster contrappone l’interesse, il tessuto corporeo e identitario delle pratiche culturali neoavanguardiste.
Funzionale a questo progetto di sintesi, fra la criticità dei giudizi estetici e la decostruzione della rappresentazione, è la resa dei conti con i teorici del modernismo estetico (Michael Fried, Clement Greenberg, Rosalind Krauss): soltanto ricomponendo la separazione fra il disinteresse contemplativo rivendicato dal formalismo modernista e il culto per le “strutture interne” delle opere, a cui resta devoto il modernismo avanguardista, è possibile contestualizzare l’asse verticale – temporale, diacronico, stilistico, medium-specific – della critica dialettica e accedere a quello orizzontale – spaziale, sincronico, discorsivo, debate-specific – della critica decostruzionista. Le opposizioni non vanno intese come un’alternativa fra tradizioni estetiche, un conflitto fra l’eredità tardo-modernista e quella avanguardista: poiché sono le neoavanguardie a ripetere entrambe le dimensioni, cercando di mantenere "questi due assi in equilibrio critico”, tocca a loro realizzare, per la prima volta, la realtà delle avanguardie, secondo il principio lacaniano dell’“azione differita”.
Il concetto di “azione differita” implica l’idea di un presente mobile, di una ripetizione concepita come ritardo senza origine che genera il modello, un ritardo che riprende gli “scarti” di Duchamp. Le neoavanguardie, inaugurate dalle ripetizioni minimaliste e pop dei principi estetici costruttivisti e dadaisti, non rappresentano pertanto né un attacco all’autonomia formalista del tardo modernismo né un’implosione commerciale della trasgressione avanguardista, bensì una decostruzione della dialettica di avanguardia e modernismo, di interesse e qualità. Dal momento che non esiste realtà senza ripetizione, il ritorno delle avanguardie storiche coincide con la produzione della loro realtà. Di qui, con un richiamo nemmeno troppo celato al “metacommentary” jamesoniano, l’introduzione del metodo del “parallasse” – "che implica l'apparente spostamento di un oggetto provocato, in realtà, dal movimento dell'osservatore" (p. 10) – che rappresenta la strategia a cui Foster assegna il compito di contenere la disseminazione decostruzionista, incanalandola nella riflessività del soggetto critico. Con una formula incisiva e parodica, che ricalca il benjaminiano “autore come produttore”, Foster si presenta in veste di ideologo della “svolta etnografica” dell’arte contemporanea.
La scansione storica abbozzata da Foster – arte testuale (anni Settanta), simulacrale (anni Ottanta) e realismo etnografico e traumatico (anni Novanta) – va dunque concepita come un effetto di superficie generato dal “circuito” di anticipazione e ricostruzione delle neoavanguardie: bergsonianamente, nel differire creativamente da se stessa, l’attualità dell’arte crea il proprio passato e sogna il proprio futuro. Una medesima precauzione vale per la relazione fra moderno e postmoderno, che Foster sottrae alla sfera storica e assegna sincronicamente a meccanismi strutturali. Il ritorno del reale contiene inoltre molte analisi illuminanti, ad esempio una sottile distinzione fra shock e trauma e un lungo excursus sulle figure dell’alterità culturale. Per la sua impalcatura teorica, il libro di Foster può venir letto come un disperato tentativo di mettere in salvo, in un’epoca di capitalismo avanzato, il serbatoio politico della critica culturale e l’incessante oscillazione dell’attualità fra “la sfera dell’azione e quella della pura memoria” (Bergson).



Andrea Cortellessa / Tuttolibri. La Stampa/ 09-06-2007

Tendenze Inchieste, denunce, testimonianze: nelle classifiche la «faction» batte la fiction Ma i fatti (soprattutto i fattacci) producono spesso solo un voyeurismo passivo e impotente FAME DI REALTA' (O DI REALITY?). (...)
Proprio partendo dallo studio del trompe-l'oeil, del resto, un altro maestro oggi considerato «cattivo» (e tanto piu' imprescindibile, dunque), Jean Baudrillard, e' arrivato a spiegare come l'illusione della realta', nell'ultimo Novecento, piu' ancora che all'arte abbia dato strumenti alla politica. (E noi in Italia, che di trompe-l'oeil abbiamo esempi mirabili, anche di questo sappiamo qualcosa.) Eppure gia' una decina d'anni fa il critico d'arte Hal Foster poteva ben parlare di ritorno del reale (finalmente tradotto l'anno scorso da Postmedia Books: Il ritorno del reale. L'avanguardia alla fine del Novecento, pp. 247, e21), sostenendo come caratteristica del nostro tempo sia «un'insoddisfazione legata al modello testuale della cultura e alla visione convenzionale della realta'» (fenomeni questi, appunto, squisitamente postmoderni): solo che il reale, prima «represso», e' tornato «in chiave traumatica». In altri termini: proprio perche' sempre piu' consapevoli della costitutiva irraggiungibilita' del reale, e proprio perche' del reale, socialmente, siamo stati resi vedovi, tanto piu' quel reale desideriamo avvicinare, toccare, consumare. E lo facciamo in maniera sempre piu' violenta: sino, appunto, a ingurgitarlo spasmodicamente. Per la verita', secondo Alain Badiou tutto il Moderno e' stato dominato dalla «passione del reale». Ma se il Reale e' il Trauma, il tempo dominato dalla sua «passione» non puo' che essere il «secolo della guerra» (Il secolo, Feltrinelli 2006, pp. 201, e18). Non e' un caso che sia proprio da un quindicennio a questa parte, da quando appunto l'emozione culturale della guerra e' stata fruita da un pubblico di massa sugli schermi televisivi - e anzi essa nel palinsesto s'e' introdotta come spettacolo a tutti gli effetti -, che la nostra fame di realta' ha raggiunto livelli di guardia. Ed e' stato sui fatti di cronaca piu' sanguinosamente efferati che il voyeurismo televisivo s'e' incrudelito, sino a forme di vero e proprio vampirismo. Tutti, volenti o nolenti, siamo costretti a sapere chi sia Annamaria Franzoni (anche se non e' dato sapere chi davvero sia; proprio da questo, anzi, c'e' da supporre dipenda il suo discutibile fascino), dunque non puo' stupire che decida di pubblicare un libro. Che sempre piu' si dipenda dai fatti, e anzi dai fattacci, non e' affatto un buon segno. Superato un certo livello di saturazione, l'indignazione lascia il passo alla fruizione spettacolare, cioe' passiva. Quella della realta' diventa addiction, una dipendenza come dalla droga: ormai siamo tutti fatti di fatti. Cosi' la realta' diventa reality: che e' poi la versione odierna, tecnologicamente ed eticamente aggiornata, del trompe-l'oeil. Giusto il contrario del reale, cioe': dove piu' nulla traumatizza - e tutto, ma proprio tutto, si consuma.



Marco Belpoliti / Tuttolibri. La Stampa/ 27-01-2007

Bilanci del Novecento Tre percorsi dalle avanguardie al Postmoderno, una critica estetica e insieme politica L' arte tra consumo e rivolta. (...) Arte dal 1900 e' stato preceduto e preparato da un libro fondamentale, vero classico del genere, L'originalita' dell'avanguardia e altri miti modernisti di Rosalind Krauss, scritto nel 1985 e ora in uscita da Fazi a cura di Elio Grazioli. Dieci anni dopo Hal Foster ha invece pubblicato un libro militante, Il ritorno del reale (ora edito da POSTMEDIA) che ne prosegue i discorsi rispetto alle nuove pratiche artistiche. In questa opera si trovano anticipate alcune delle novita' dell'Arte dal 900, dove i capitoli dedicati agli ultimi trent'anni sono stati scritti in gran parte da Foster. Nel capitolo finale del suo libro, «Cos'e' successo al postmoderno?», egli ci ricorda che «non esiste un semplice ora, ma che ogni presente e' non-sincrono, una miscela di tempi diversi; percio' non c'e' transizione temporale tra moderno e postmoderno»: devono essere analizzati insieme, in parallasse, poiche' questi due concetti dipendono dalla nostra posizione nel presente e questa, a sua volta, e' definita da tali contestualizzazioni. Se gli Anni Trenta sono il culmine del modernismo, gli Anni Sessanta segnano il pieno dispiegarsi del postmodernismo, evento che comporta due effetti strettamente correlati: rivisitare il modernismo e nel contempo decretarne la morte. Esistono, dice Foster in Arte dal 1900, due versioni opposte del postmodernismo: progressista e neoconservatrice. La seconda e' espressa, a suo parere, dall'architettura di Philip Johnson e Robert Venturi, come dalla pittura di Clemente, Kiefer e Schnabel, artisti piu' antimodernisti che postmodernisti che hanno cercato una riconciliazione con il pubblico e con il mercato ma senza essere davvero democratici. Questa versione del postmodernismo, fondata sulla citazione e il pastiche, nonostante le proprie intenzioni, ha evidenziato negli Anni Ottanta la disintegrazione del canone stilistico modernista. L'altro postmodernismo, di cui Foster e la Krauss sono i teorici, e' definito come poststrutturalista. Mentre i neoconservatori davano per scontata la verita' delle rappresentazioni, i poststrutturalisti perseguirono la critica della rappresentazione che mise in dubbio tale verita' (Foster fa gli esempi di Barbara Kruger e Jenny Holzer). Ma ora, ci spiegano le ultime cento pagine della grande opera curata da Elio Grazioli (dal 1984 al 2003), siamo al di la' di tutto questo. Esistono oggi forme di narrazione e tipi di soggettivita', scrive, che hanno visto nel postmodernismo non il segno di una perdita reale, come sostenevano gli antimodernisti, bensi' una potenziale apertura su qualcosa di diverso. Sono le opere di Rona Pondick, Robert Gober, Kiki Smith, William Kentridge, o Douglas Gordon a segnare questo momento. Non e' forse un caso che l'ultimo capitolo, in cui compare decisivo il lavoro di scambio e organizzazione culturale di Hans Ulrich Obrist, si chiuda sulla visione di attivita' in cui l'attivita' di distribuire idee, irradiare energie, liberare forze collettive (Castern Holler e Stefano Boeri) si coniuga con la attenzione alle relazioni d'affetto. Con la globalizzazione il paesaggio diventa necessariamente internazionale e quello dell'artista diviene un lavoro di «studio»: «Non spazio di produzione, dice Gabriel Orozco, ma un tempo di conoscenza».

  articoli correlati
La recensione di Design & Crime


  si ringaziano anche:
blogspot
supereva
agalma
politecnico di milano