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Lancio di dadi (per Hans Ulrich Obrist)
di Daniel Birnbaum
"C’è un’altra cosa che voglio voi capiate”, scrive Lucrezio nel secondo libro del suo grande poema De Rerum Natura, e comincia ad enumerare la sua teoria del clinamen, l’imprevedibile deviazione degli atomi:
A tale proposito desideriamo che tu conosca anche questo: che i corpi primi, quando in linea retta per il vuoto son tratti in basso dal proprio peso, in un momento affatto indeterminato e in un luogo indeterminato, deviano un po' dal loro cammino: giusto quel tanto che puoi chiamare modifica del movimento. Ma, se non solessero declinare, tutti cadrebbero verso il basso, come gocce di pioggia, per il vuoto profondo, né sarebbe nata collisione, né urto si sarebbe prodotto tra i primi principi: così la natura non avrebbe creato mai nulla.
Lucrezio, come il suo grande maestro Epicuro a differenza di Democrito indulgeva in sottigliezze metafisiche estranee alla sua dottrina materialista. Essendo moralista, credeva nel libero arbitrio. Se i movimenti dell’atomo sono assolutamente determinati, come pensavano i primi materialisti, a lui sembrava che tutte le gesta umane dovessero essere ugualmente determinate. Di conseguenza, gli atomi non devono deviare, se non raramente e di poco, dai percorsi che la natura ha previsto per loro. Possiamo dubitare che la sua teoria fosse davvero rilevante per la questione morale attinente. Ma, in un sistema atomistico altrimenti rigido, era una concessione agli elementi di incomprensibilità e imprevedibilità della natura, ovvero ciò che Sanford Kwinter definisce "evento” in Architectures of Time. Questa deviazione o lo sforzo quasi impercettibile che inizia la totale trasformazione del mondo è, io credo, ciò che interessa Hans Ulrich Obrist.
Il curatore come manager della fortuna. Chi è Hans Ulrich Obrist? Cos’è Hans Ulrich Obrist?
Ricordo che, a una cena con Harald Szeemann molti anni fa, un artista svedese mio amico gli chiese se le "Macchine Celibi” fossero un progetto di Pontus Hultén. Un po’ risentito, Szeemann rispose, "Non tutto ciò che era interessante era fatto da Pontus”. Chiaro, l’artista avrebbe dovuto sapere che quello era uno dei più famosi progetti di Szeemann, ma l’errore è comprensibile se si pensa che l’attrazione di Hultén per il Grande vetro di Duchamp (1915-1923) e la sua predilezione per le macchine strane si era già materializzato in mostre come Movement in Art (1961) e The Machine as Seen at the End of the Mechanical Age (1968). Inoltre, solo due anni dopo la mostra di Szeemann, Pontus Hultén aveva messo in piedi la sua grande retrospettiva di Duchamp al nuovo Centre Pompidou, e alcuni degli stessi autori che avevano scritto per Szeemann apparivano nel catalogo di Pontus Hultén alla ricerca di un senso per la sposa con i suoi monotoni celibi che la corteggiavano. Speculazioni ottiche e alchemiche, erotismo esotico, i meccanismi di morte e desiderio esaminati nella letteratura filosofica e sperimentale.
Sto citando questi interessi comuni a Szeemann e Hultén in quegli anni per mettere in luce una distinzione ancora più importante che ha poco a che fare con i contenuti, ma riguarda il ruolo del curatore e i suoi metodi di lavoro con le istituzioni. Negli anni Sessanta e Settanta, Pontus Hultén, più di chiunque altro, aveva messo alla prova i limiti di ciò che poteva essere un museo d’arte moderna. Egli era il direttore per eccellenza. Harald Szeemann, d’altra parte, aveva scelto di non dirigere un’istituzione e si era inventato un nuovo modo di lavorare: quello dell’Ausstellungmacher (il realizzatore di mostre) che opera da indipendente e crea nuove relazioni in un contesto culturale più ampio, e non ha niente a che fare con i compiti tradizionali di un museo. L’unico museo che interessava Szeemann era il "museo delle ossessioni” che egli portava con sé, nella propria testa. Ogni sua mostra, dall’inizio degli anni Settanta fino alla fine, veniva definita come una specie di Gastarbeit (lavoro temporaneo) al servizio di "una possibile visualizzazione del museo delle ossessioni”. Szeemann insisteva nel definire il suo museo immaginario un’entità spirituale, una specie di sfera utopica alla quale le mostre accennano soltanto per brevi e felici momenti. Eppure, sia lui che il suo "gruppo di Gastarbeit spirituali”, un one-person-business portato avanti con una squadra di devoti collaboratori, non aveva altro obiettivo che comunicare la visione di questa zona radicalmente diversa di energia, passione, intensità ed estasi. Il museo delle ossessioni era una missione che sarebbe durata tutta la vita:
"Se non ci sono ossessioni da riconoscere, allora non ho motivo per restare oltre”.
Se Hans Ulrich Obrist è il nuovo Szeemann, chi è il nostro Hultén? E se invece Obrist è il nuovo Hultén, chi è il nostro nuovo Szeemann?
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