Posizionamento mobile (Perché Hans Ulrich Obrist non è un curatore d'arte contemporanea. Perché Hans Ulrich Obrist non è un critico d'arte contemporanea) di Stefano Boeri Viviamo un periodo di grande fertilità e di grande ipocrisia nella sfera dell’arte contemporanea. Un'ipocrisia che riguarda soprattutto la divisione dei ruoli tra produzione, critica e curatela. Come sappiamo, critica e curatela di arte contemporanea dovrebbero fondarsi su un comune ordine del discorso, che le distingue dalla sfera della produzione artistica. Un ordine del discorso che opera secondo i due grandi esercizi della perimetrazione e della classificazione; entrambe sono infatti chiamate ad includere ed escludere entro campi di valore e classi di merito autori, opere, luoghi e istituzioni. La critica d’arte contemporanea dovrebbe stabilire la sfera ontologica in cui qualcosa di nuovo accade ed è in corso: entro questa sfera costruire famiglie, tendenze, prospettive; osservare l’evoluzione degli artisti e delle opere, coglierne e certificarne le fasi, gli scarti, le cadute, gli intervalli. Storicizzarne il presente. L’ordine del discorso della curatela dovrebbe invece fondarsi su un criterio tendenzialmente geografico. Circoscrivere i territori dove il nuovo è in azione. Seguire e orientare il percorso degli artisti, costruire spazi e occasioni di incontro, generare esclusioni. Creare gerarchie di luoghi e di istituzioni. Per riassumere, la critica d’arte contemporanea dovrebbe circoscrivere e classificare sul piano della storia presente quello che la curatela dovrebbe circoscrivere e classificare sul piano della geografia presente. Ma a ben guardare, le cose oggi non stanno così. Anzi, da tempo ormai i due ambiti sono di fatto sempre più sovrapponibili e sovrapposti, al punto da diventare quasi sinonimi. Oggi, nei territori dell’arte contemporanea, la curatela ha assorbito il ruolo della critica e la critica si è protesa fino a occupare lo spazio di azione della curatela. Ma c’è di più: è cambiata la natura della sfera di produzione di arte contemporanea, che oggi ha divorato i presupposti della critica e della curatela. Da Andy Warhol a Dan Graham, da Alighiero Boetti a Matthew Barney, l’arte è diventata gradualmente una pratica delocalizzata e autoriflessiva. Che sfugge alla geografia e pretende di storicizzare sé stessa. Gli artisti si muovono su un territorio globale e amplissimo, dove si sono moltiplicate le occasioni espositive (biennali, fiere, mostre antologiche, retrospettive) e dove le tendenze nascono più dal posizionamento entro un certo evento che da una classificazione di generi e poetiche. Addirittura, come è stato più volte notato, in questa luce, ogni artista è potenzialmente autore della sua critica e curatore della sua opera. Ma, nonostante la sua evidenza sia esplosiva, questa sostanziale con-fusione di identità, aspettative, compiti continua ad essere di fatto anestetizzata, rimossa. Nel mare delle dissolvenze, galleggiano infatti ancora ruoli professionali rigidi, committenze codificate secondo codici e istituzioni anacronistici. Curatori che fingono di fare solo i curatori chiamano artisti che fingono di essere solo artisti a produrre opere da esporre al giudizio di critici che fingono di esercitare solo il mestiere della critica. Ruoli che spezzettano formalmente un campo di pratiche sostanzialmente unificato dallo sfumare delle differenze di genere. Il lavoro di Hans Ulrich Obrist è indecifrabile se si prescinde dal rilievo di questa fertile con-fusione; e dell’ipocrisia che di continuo la nasconde. |
|||
postmedia books | Stefano Boeri è nato a Milano nel 1956. Ha insegnato progettazione urbana a Venezia, a Mendrisio e al Berlage di Rotterdam. Ha pubblicato numerosi libri ed è stato direttore di Domus. dal 2007 dirige la rivista Abitare. |