Art Power


introduzione

La prima cosa che si impara leggendo la maggior parte dei testi sull'arte moderna contemporanea è che l'arte moderna, ma soprattutto quella contemporanea sono radicalmente pluralistiche. Questo sembra precludere del tutto la possibilità di scrivere dell'arte moderna come fenomeno specifico, come il risultato del lavoro collettivo di generazioni diverse di artisti, curatori e teorici, così come si farebbe, ad esempio, volendo scrivere di arte barocca o rinascimentale. Questo impedisce anche di descrivere qualsiasi opera d'arte come esempio generale di arte moderna (e qui con il termine moderna intendo anche quella contemporanea). Ogni tentativo di questo genere si confronta subito con il suo contrario. I teorici dell'arte sembrano quindi condannati a restringere il loro campo d'interesse in partenza e a concentrarsi su specifici movimenti, scuole o mode, oppure – ancor meglio – sull'opera dei singoli artisti. L'asserzione secondo cui l'arte moderna sfugge ogni generalizzazione è l'unica generalizzazione ancora concessa. Esistono solo differenze, almeno in apparenza. Di conseguenza occorre fare una scelta, scegliere da che parte stare, impegnarsi, accettando inevitabilmente l'accusa di unilateralità, oppure scegliere di fare pura e semplice pubblicità agli artisti preferiti a discapito degli altri, con lo scopo di accrescerne il successo commerciale all'interno del mercato dell'arte. In altre parole, il presunto pluralismo dell'arte moderna e contemporanea rende ogni discorso in merito futile e frustrante. Questo è sufficiente a mettere in discussione il dogma del pluralismo.
È vero che ogni movimento d'arte moderna ha provocato un contro movimento, che ogni tentativo di formulare una definizione teorica dell'arte ha spinto gli artisti a produrre opere che riuscissero a sfuggire questa definizione, e via dicendo. Quando alcuni artisti e critici trovavano la vera risorsa dell'arte nell'espressione soggettiva di un singolo artista, altri ritenevano necessario che l'arte tematizzasse l'oggettivo, le condizioni materiali della sua produzione e distribuzione. Quando alcuni insistevano sull'autonomia dell'arte, altri praticavano la via dell'impegno politico. Più banalmente, quando alcuni artisti hanno iniziato a produrre lavori astratti, altri hanno cominciato a essere iperrealisti. Si può quindi dire che ogni opera d'arte moderna sia stata concepita con l'intento di contraddirne qualsiasi altra, in un modo o nell'altro. Ma questo, naturalmente, non significa che l'arte moderna sia diventata in tal modo pluralistica [...]
In effetti, l'arte ha sempre tentato di rappresentare il potere più grande, divino o naturale, quello che guidava il mondo nella sua totalità. Quindi, come sua rappresentazione, l'arte tradizionalmente trae la sua autorità da questo potere. In questo senso, l'arte è sempre stata direttamente o indirettamente critica perché mette a confronto il potere finito, politico, con le immagini dell'infinito: Dio, la natura, il destino, la vita, la morte. Oggi, lo stato moderno proclama anche l'equilibrio del potere come obiettivo ultimo, ma non può mai veramente raggiungerlo. Si potrebbe quindi dire che l'arte moderna, nella sua totalità, cerchi di offrire un'immagine di un equilibrio utopistico di potere che eccede l'equilibrio imperfetto del potere dello stato. Hegel, il primo a celebrare la forza dell'equilibrio del potere incarnato dallo stato moderno, credeva che con la modernità l'arte sarebbe diventata una cosa del passato. Vale a dire che egli non credeva fosse possibile mostrare l'equilibrio del potere né che si potesse ridurlo in un'immagine. Credeva che il vero equilibrio del potere, quello a somma zero, potesse solo essere pensato, ma non visto. Tuttavia, l'arte moderna ha dimostrato che è possibile visualizzare anche lo zero, l'equilibrio perfetto del potere.
Se non esiste un'immagine che possa funzionare come rappresentazione di un potere infinito, allora tutte le immagini sono uguali. Quindi, il telos dell'arte contemporanea è l'uguaglianza di tutte le immagini. Ma, l'uguaglianza di tutte le immagini eccede l'uguaglianza pluralistica, democratica, del senso estetico. Esiste sempre un surplus infinito d'immagini possibili che non corrispondono a nessun gusto specifico, sia esso individuale, "raffinato", marginale, o quello delle masse. Di conseguenza, è sempre possibile fare riferimento alle immagini escluse, a quelle indesiderate, e questo è ciò che l'arte contemporanea fa continuamente. Già Malevic diceva di lottare contro la sincerità dell'artista. E Broodthaers sosteneva – agli inizi della sua carriera – di voler fare qualcosa d'insincero. Non essere sincero in questo contesto significa fare arte al di là del gusto – anche a discapito del proprio. L'arte contemporanea è un eccesso di gusto, incluso quello pluralistico. In questo senso si tratta di un eccesso di democrazia pluralistica, di uguaglianza democratica. Questo eccesso stabilizza e destabilizza al tempo stesso l'equilibrio democratico del gusto e del potere. Questo paradosso è nel nostro tempo ciò che caratterizza l'arte contemporanea nella sua totalità.
E non è solo il campo artistico nella sua totalità che può essere visto come un'incarnazione del paradosso. Già nella cornice della modernità classica, ma sopratutto nell'arte contemporanea, le singole opere d'arte cominciano a essere oggetti-paradosso che incarnano simultaneamente tesi e antitesi. Fountain di Duchamp è un'opera d'arte e non è un'opera d'arte allo stesso tempo. Anche Quadrato nero di Malevich è un dipinto e al tempo stesso una figura geometrica. Tuttavia, l'incarnazione artistica dell'auto-contraddizione, del paradosso, comincia a essere praticata specialmente nell'arte contemporanea dopo la Seconda Guerra Mondiale. A questo punto ci si confronta con dipinti che possono essere descritti sia come realistici sia come astratti (Gerhard Richter), o oggetti che possono essere descritti sia come sculture tradizionale sia come readymade (Fischli/Weiss), solo per fare qualche esempio. Siamo di fronte anche a opere d'arte che hanno un intento sia documentaristico sia narrativo, e a interventi artistici che vogliono essere politici mentre al tempo stesso vogliono trascendere i confini del sistema dell'arte – pur restando all'interno di questi confini. Il numero di queste contraddizioni e delle opere che le rappresentano e incarnano può essere apparentemente incrementato a piacere. Queste opere d'arte possono creare l'illusione di voler invitare lo spettatore a una pluralità potenzialmente infinita d'interpretazioni, vogliono dare l'illusione di avere significati aperti, di non imporre allo spettatore nessuna ideologia, teoria o destino specifico.
Tuttavia, questa apparente pluralità infinita è ovviamente solo di un'illusione. Di fatto esiste solo un'interpretazione corretta che viene imposta allo spettatore: in quanto oggetti-paradosso, queste opere d'arte richiedono una reazione perfettamente paradossale e autocontraddittoria. Qualsiasi reazione che non sia paradossale, o lo sia solo parzialmente, dovrebbe essere considerata come riduttiva e quindi falsa. L'unica interpretazione adeguata per un paradosso é un'interpretazione paradossale. Perciò la difficoltà più profonda nell'avere a che fare con l'arte moderna sta nella nostra riluttanza ad accettare interpretazioni paradossali e autocontraddittorie come adeguate e vere. Tuttavia, questa riluttanza andrebbe eliminata, in modo da poter vedere l'arte moderna e contemporanea per quello che sono realmente, ossia un luogo dove si rivela il paradosso che governa l'equilibrio del potere. Infatti, essere un oggetto-paradosso è il requisito normativo applicato implicitamente a qualsiasi opera d'arte. Un'opera contemporanea è tanto una merce quanto un paradosso – poiché incarna la più radicale autocontraddizione e contribuisce a stabilire e mantenere il perfetto equilibrio di potere tra tesi e antitesi. In questo senso anche l'opera più radicalmente unilaterale si può considerare buona, se contribuisce a correggere l'equilibrio distorto del potere in ambito artistico nel suo complesso.
Certo, essere unilaterali e aggressivi è tanto moderno quanto essere moderati e cercare di trovare l'equilibrio di potere. I movimenti moderni rivoluzionari o, potremmo dire, i movimenti e gli stati totalitari, puntano anch'essi all'equilibrio di potere, ma sono convinti che esso possa essere raggiunto solo attraverso una lotta continua, il conflitto e la guerra. L'arte messa a servizio di questa dinamica – l'equilibrio rivoluzionario del potere – assume inevitabilmente la forma della propaganda politica. Quest'arte non si limita a rappresentare il potere, partecipa alla lotta per il potere che interpreta come l'unico modo in cui il vero equilibrio di potere può manifestarsi. A questo punto devo confessare che anche i saggi contenuti in questo libro sono motivati dalla volontà di contribuire a un certo equilibrio di potere nell'attuale sistema dell'arte – cioè, a trovare al suo interno più spazio per quell'arte che funziona come propaganda politica.
Secondo i parametri della modernità un'opera d'arte può essere prodotta e mostrata al pubblico in due modi: come merce o come strumento di propaganda politica. La quantità di arte prodotta secondo questi due regimi è pressoché identica. Tuttavia, nella scena artistica contemporanea c'è molta più attenzione rivolta alla storia dell'arte come merce che come propaganda politica. L'arte ufficiale, così come quella non ufficiale dell'Unione Sovietica e di altri stati ex-socialisti, resta quasi completamente esclusa dalla storia dell'arte contemporanea e dal sistema museale. Si può dire lo stesso dell'arte sostenuta da stati come la Germania nazista e l'Italia fascista. Lo stesso vale per l'arte dell'Europa occidentale che era sostenuta e divulgata dai partiti comunisti occidentali, soprattutto da quello francese. L'unica eccezione è il costruttivismo russo creato sotto il NEP, durante la temporanea reintroduzione di un limitato libero mercato nella Russia sovietica. Ovviamente c'è una ragione per l'esclusione dell'arte a sfondo politico prodotta al di fuori delle condizioni del mercato: dopo la Seconda Guerra Mondiale e soprattutto dopo il cambio di regime nei paesi dell'ex blocco socialista dell'Europa orientale, il sistema commerciale di produzione e distribuzione dell'arte ha dominato il sistema politico. Il concetto di arte è diventato pressoché un sinonimo del concetto di mercato dell'arte, tanto che l'arte non prodotta secondo le condizioni del mercato è stata di fatto esclusa dall'arte istituzionalmente riconosciuta. Questa continua esclusione di solito è detta in termini morali: apparentemente si è troppo eticamente impegnati per avere a che fare con l'arte "totalitaria" del Ventesimo secolo che ha "pervertito" le aspirazioni politiche "genuine" della vera arte utopistica. Questa distinzione tra "arte perversa" e "arte genuina" è certamente molto problematica: questo vocabolario viene usato di volta in volta in modo curioso da autori che subito denunciano l'uso della stessa nozione di perversione in altri contesti. È interessante notare che anche il giudizio più severo sulle dimensioni morali del libero mercato non porta mai nessuno a concludere che l'arte che è stata ed è prodotta sotto queste condizioni di mercato non andrebbe considerata storicamente e criticamente. È una caratteristica di questa mentalità che l'arte dissidente dei paesi socialisti, non solo quella ufficiale ma anche quella non ufficiale tende a essere tagliata fuori dalla teoria artistica dominante.
Tuttavia, qualsiasi cosa si pensi della dimensione morale del non-mercato, l'arte "totalitaria" non è, in effetti, di alcuna rilevanza in questa sede. La rappresentazione di quest'arte a sfondo politico all'interno del mondo dell'arte non ha niente a che fare con il fatto che la si trovi o meno moralmente o esteticamente buona o cattiva – proprio come nessuno si chiederebbe se Fountain di Duchamp sia moralmente o esteticamente buona o cattiva. Come ready-made, la merce ha guadagnato un accesso illimitato al mondo dell'arte, ma non è stato così per la propaganda politica. In tal modo l'equilibrio di potere tra economia e politica nell'arte è stato distorto. Non si può, cioè, eliminare il sospetto che l'esclusione dell'arte che non è stata prodotta secondo le condizioni standard del mercato abbia una sola base: il discorso artistico dominante identifica l'arte con il mercato dell'arte e resta cieco davanti a qualsiasi opera prodotta e distribuita secondo meccanismi altri rispetto al mercato.
È significativo che questo modo di intendere l'arte sia condivisa anche dalla maggior parte di artisti e teorici dell'arte che hanno una posizione critica nei confronti della mercificazione dell'arte, e da chi auspica che sia proprio l'arte a criticare la sua mercificazione. Tuttavia, percepire la critica della mercificazione dell'arte come unico o principale obiettivo dell'arte contemporanea è come riaffermare il potere totale del mercato dell'arte, anche quando la riaffermazione assume la forma di una critica. L'arte, da questo punto di vista, viene percepita come totalmente priva di potere, priva di qualsiasi criterio immanente di scelta e di logica immanente di sviluppo. Secondo questo tipo di analisi, il mondo dell'arte è completamente assoggettato a diversi interessi commerciali che "in ultima istanza" dettano i criteri di esclusione e inclusione che costituiscono il mondo dell'arte. In questa prospettiva, l'opera d'arte si presenta come una merce sofferente e infelice, completamente sottomessa al potere del mercato e si differenzia dalle altre merci solo attraverso la sua capacità di diventare una merce critica e autocritica. Questa nozione di merce autocritica è certamente del tutto paradossale, l'opera (auto)critica è un oggetto-paradosso che s'inserisce alla perfezione nel paradigma dominante dell'arte moderna e contemporanea. Non c'è quindi nulla da dire contro quest'arte (auto)critica all'interno di quel paradigma; ma sorge la questione se essa possa anche essere davvero arte politica.
Certo, chiunque sia coinvolto in un'attività artistica o critica è interessato alle seguenti domande: Chi decide cosa sia arte e cosa non lo sia? Chi decide quale sia quella buona e quella cattiva? È l'artista, il curatore, il critico, il collezionista, l'intero sistema dell'arte, il mercato, il pubblico? Mi sembra tuttavia che questa domanda, sebbene allettante, sia comunque errata. Chiunque sia a stabilirlo può commettere degli errori; il pubblico generico e democratico può fare degli errori, come ha già fatto molte volte nel corso della storia. Occorre ricordare che tutta l'arte d'avanguardia venne realizzata contro il gusto del pubblico, anche e soprattutto quando era fatta in nome di questo. Questo significa che la democratizzazione del pubblico dell'arte non è una risposta valida. Così come non lo è la formazione del pubblico, poiché tutta l'arte valida è nata, e nasce ancora, contro ogni regola scolastica. Una critica alle regole dell'attuale mercato dell'arte e delle istituzioni è sicuramente necessaria e legittima, ma questa critica acquista senso solo se mira a porre l'attenzione verso l'arte interessante che viene però trascurata da queste istituzioni. Inoltre, come è noto, se questa critica ha successo, conduce all'inclusione istituzionale dell'arte inizialmente trascurata e, infine, a una loro ulteriore stabilizzazione. La critica interna al mercato dell'arte è in grado di migliorarlo in parte, ma non può minarne le basi.
L'arte ha davvero effetto sulla politica solo quando è realizzata oltre o al di fuori del mercato – nell'ambito della propaganda politica diretta. Quest'arte venne realizzata negli ex paesi socialisti. Esempi attuali includono i video o i poster islamici che funzionano nel contesto del movimento internazionale anti-globalizzazione. Certo, questo tipo di arte è sostenuta economicamente dagli stati o dai vari movimenti politici e religiosi. Tuttavia la sua produzione, valutazione e distribuzione non segue le logiche del mercato. Quest'arte non è una merce. Soprattutto sotto le regole dell'economia socialista di tipo sovietico, le opere d'arte non erano merci, perché il mercato non esisteva. Queste opere non erano create per singoli consumatori che avrebbero dovuto essere i loro potenziali clienti, ma per le masse che avrebbero dovuto assorbire e accettare il loro messaggio ideologico.
Certo, si può facilmente sostenere che quest'arte di propaganda sia semplicemente grafica politica. Questo significa che l'arte rimane tanto priva di potere nell'ambito della propaganda politica quanto lo è nel contesto del mercato. Questo giudizio è vero e falso al tempo stesso. Gli artisti che lavorano nel contesto dell'arte di propaganda non producono contenuti, tanto per usare un idioma corrente. Fanno pubblicità a un determinato obiettivo ideologico e subordinano la loro arte a quest'obiettivo. Ma cos'è in definitiva quest'obiettivo? Ogni ideologia si fonda su una certa "visione", su una certa immagine del futuro, sia che si tratti di un'immagine del paradiso, della società comunista, o di una rivoluzione permanente. Questo è ciò che marca la differenza fondamentale tra le merci e la propaganda politica. Il mercato opera attraverso una "mano invisibile", è solo un oscuro sospetto; fa circolare le immagini, ma non ne possiede una propria. Al contrario, il potere di un'ideologia in fondo è sempre il potere di una visione. Questo significa che essendo al servizio di una qualsiasi ideologia politica o religiosa un artista fondamentalmente è al servizio dell'arte. Ecco perché un artista può sfidare un regime fondato su una visione ideologica in modo assai più efficace di quanto possa sfidare il mercato dell'arte. Un artista opera nello stesso campo dell'ideologia. Il potenziale critico e affermativo dell'arte si dimostra, quindi, molto più potente e produttivo nel contesto politico che in quello del mercato.
Allo stesso tempo, l'opera d'arte resta, sotto il regime ideologico, un oggetto-paradosso. Cioè, ogni visione ideologica è solo un'immagine promessa, un'immagine di quello che verrà. La materializzazione, la realizzazione di quella visione ideologica deve essere sempre rimandata; alla fine apocalittica della storia o alle comunità che verranno in futuro. Quindi tutta l'arte a sfondo ideologico rompe necessariamente con questa politica del differimento, dal momento che l'arte è sempre realizzata qui e ora. Certo, l'arte a sfondo ideologico può sempre essere interpretata come una prefigurazione, come un'anticipazione della visione reale che verrà. Allo stesso tempo, quest'arte può anche essere vista come una parodia, una critica, una denigrazione di questa visione, come prova che niente cambierà nel mondo anche quando la visione ideologica si realizza. La sostituzione della visione ideologica con l'opera d'arte è la sostituzione del tempo sacro, dell'infinita speranza, con il tempo profano della memoria storica e degli archivi. Dopo la perdita della fede nella visione promessa, non resta che l'arte. Questo significa che tutta l'arte a sfondo ideologico, sia essa religiosa, comunista o fascista, è già di per sé affermativa e critica allo stesso tempo. La realizzazione di qualsiasi progetto, religioso, ideologico o tecnico, è sempre anche la negazione di questo progetto, la fine di questo progetto come progetto. Ogni opera d'arte che presenti una visione che guidi una certa ideologia religiosa o politica rende questa visione profana – e di conseguenza diventa un oggetto-paradosso.
Adesso, l'arte a sfondo ideologico non è solo una cosa del passato o riferita a movimenti marginali ideologici e politici. L'arte ufficiale occidentale funziona sempre più come propaganda ideologica. Quest'arte è realizzata ed esposta per le masse, per coloro che non necessariamente desiderano comprarla; infatti, i non-compratori costituiscono l'audience travolgente e sempre in crescita dell'arte, giacché essa viene regolarmente esposta nell'ambito delle ben note biennali, triennali e via dicendo. Queste mostre non devono essere confuse con luoghi adibiti puramente all'auto-presentazione e alla glorificazione del mercato dell'arte. Piuttosto, esse tentano di volta in volta di creare e dimostrare un equilibrio di potere tra le mode contraddittorie dell'arte, le attitudini estetiche e le strategie di rappresentazione: cercano di dare un'immagine idealizzata e curata di questo equilibrio.
La lotta contro il potere dell'ideologia ha preso tradizionalmente la forma della lotta contro il potere dell'immagine. Il pensiero illuminato, ideologico, critico ha sempre provato a liberarsi delle immagini, a distruggerle o almeno a decostruirle, con l'intento di rimpiazzarle con concetti invisibili, puramente razionali. L'affermazione di Hegel che l'arte è cosa del passato e che la nostra epoca è divenuta l'epoca del concetto è stata la proclamazione della vittoria dell'illuminismo iconoclastico sull'iconofilia cristiana. Certamente, all'epoca la diagnosi di Hegel era giusta, ma egli aveva trascurato l'ipotesi dell'arte concettuale. L'arte moderna ha dimostrato di volta in volta il suo potere appropriandosi dei gesti iconoclasti diretti contro di essa e trasformandoli in nuovi modi di fare arte. L'opera d'arte moderna si è posta come un oggetto-paradosso anche in questo senso più profondo – come un'immagine e come una critica dell'immagine al tempo stesso.
Ciò ha garantito all'arte una chance di sopravvivenza nelle condizioni di radicale secolarizzazione e de-ideologizzazione, in una prospettiva che va ben oltre l'essere una semplice merce sul mercato. La nostra era presumibilmente post-ideologica ha anche la sua immagine: la mostra internazionale prestigiosa come immagine del perfetto equilibrio di potere. Il desiderio di liberarsi di ogni immagine può essere realizzata solo attraverso un'altra immagine: quella della critica dell'immagine. Questa figura fondamentale – l'appropriazione artistica dell'iconoclastia che produce gli oggetti-paradosso che chiamiamo opere d'arte – è, direttamente o indirettamente, il soggetto dei saggi che seguono.









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