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introduzione di Douglas Rushkoff
Una volta acquisito il linguaggio nel corso dell'evoluzione del genere umano, abbiamo imparato non soltanto ad ascoltare ma anche a parlare. Con l'alfabetizzazione abbiamo appreso non solo a leggere ma anche a scrivere. E addentrandoci sempre più nel mondo digitale, dobbiamo imparare non soltanto a usare i programmi bensì anche a realizzarli.
Nello scenario emergente del prossimo futuro, dove vige un elevato livello di programmazione, o sapremo creare il software o diventeremo il software. La scelta va riducendosi a quella di programmare o di essere programmati. Scegliendo la prima opzione, avremo accesso al pannello di controllo della civilizzazione. La seconda potrebbe invece rivelarsi l'ultima vera scelta che ci sarà mai dato di compiere.
Pur se, sotto molti aspetti, le tecnologie digitali rappresentano la naturale estensione del percorso evolutivo concretizzatosi finora, queste si pongono in maniera nettamente diversa rispetto al passato. Reti e computer sono qualcosa di più che semplici strumenti: assomigliano a veri e propri esseri viventi. Diversamente da un rastrello, da una penna o perfino da un martello pneumatico, la tecnologia digitale va programmata. Ciò implica un corredo di istruzioni che ne illustri non soltanto l'utilizzo, ma anche la sua stessa natura. E visto che queste tecnologie sono arrivate a caratterizzare il futuro delle modalità in base alle quali viviamo e lavoriamo, coloro incaricati di programmarle vanno assumendo un ruolo sempre più importante nel dar forma al mondo e al suo funzionamento. Dopo tale passaggio, saranno comunque le tecnologie digitali in quanto tali a plasmare il mondo sia in presenza sia in assenza della nostra collaborazione esplicita.
Ne consegue la centralità di questo momento storico. Stiamo creando tutti insieme la matrice, il design del nostro futuro collettivo. Ci troviamo di fronte a incredibili potenzialità di progresso a livello economico, pratico, artistico e perfino spirituale. Fu grazie alla parola che gli esseri umani acquisirono per la prima volta la capacità di trasmettere la conoscenza e dar vita a quel che oggi definiamo civilizzazione; parimenti, l'attività in rete potrebbe presto consentirci di accedere al pensiero in maniera condivisa—un'estensione della coscienza ancor'oggi inconcepibile per la maggior parte di noi. È lecito assumere che i principi operativi del commercio e della cultura—con i rispettivi ambiti legati a domanda e offerta, circolazione e controllo—possano dar vita a modalità di partecipazione ben più impegnative, interconnesse e collaborative.
Eppure, comunque sia, finora siamo in troppi a ritenere che le reti digitali si comportano in maniera imprevedibile o finanche opposta alle nostre stesse intenzioni.
I rivenditori emigrano online soltanto per vedersi tagliare i prezzi dai sistemi di comparazione automatica. I produttori di opere culturali occupano i canali di distribuzione interattiva ma poi non trovano nessuno disposto a pagare per contenuti prima acquistati senza esitare. Gli educatori, che non vedevano l'ora di avere accesso alla copiosità di informazioni relative a ogni parte del globo per i propri corsi, devono confrontarsi con studenti per i quali la conclusione soddisfacente a una ricerca è trovare una risposta su Wikipedia. I genitori, prima convinti che i figli avrebbero usato intuitivamente il multitasking per raggiungere il successo professionale, ora sono preoccupati per la scarsa la capacità di concentrazione su un qualsiasi argomento dimostrata dai ragazzi.
Gli attivisti politici, per i quali Internet avrebbe dovuto consolidare il rapporto con la base, scoprono che sono le petizioni online e i blog auto-referenziali a sostituire l'azione concreta. I giovani che consideravano i social network un modo per ridefinire se stessi rispetto a confini finora considerati sacrosanti, adesso vanno conformandosi alla logica dei profili impostati in tali social network per ritrovarsi vittime del marketing e del linciaggio virtuale. Gli economisti, sicuri che l'imprenditoria digitale avrebbe rivitalizzato gli attuali cedimenti dell'epoca industriale, devono invece fare i conti con l'impossibilità di generare valore aggiunto tramite i capitali d'investimento. Il mondo dell'informazione, secondo cui le reti di comunicazione dovevano aprire nuove opportunità per il giornalismo partecipativo e per il ciclo continuo e interattivo della raccolta di notizie, è scivolato nel sensazionalismo, continua a perdere soldi e non sembra più utile come una volta.
Persone qualunque ma istruite, le quali reputavano Internet una nuova opportunità per la partecipazione amatoriale in quei settori dei media e della società finora inaccessibili, oggi devono invece confrontarsi con l'indiscriminata pratica del "mash-up" e del mixare a piacimento praticamente qualsiasi cosa, in un ambiente dove i contenuti più chiassosi e lascivi soffocano qualsiasi cosa richieda più di un istante per essere assimilata. Gli animatori sociali e comunitari che guardavano ai social media come modalità innovativa, tutelata dove la gente poteva ritrovarsi ed esprimere opinioni per promuovere il cambiamento dal basso, spesso indietreggiano di fronte al modo in cui l'anonimità in rete sembra incitare comportamenti da teppisti, attacchi personali e risposte insensate.
Un'intera società che considerava Internet un percorso verso interconnessioni positivamente articolate e nuove metodologie per la creazione di significato, si ritrova invece disconnessa al suo interno, priva di riflessioni profonde e svuotata di valori duraturi.
Non c'è alcun motivo perché vada a finire così. E per evitarlo basta decidere di imparare le caratteristiche insite nelle tecnologie che stiamo usando e di svolgere un ruolo consapevole nelle procedure con cui queste vengono implementate.
Siamo di fronte a un futuro in rete che sembra privilegiare la distrazione rispetto alla concentrazione, le reazioni automatiche ai danni di quelle ponderate e quanti esprimono contrarietà anziché compassione. Motivo per cui è ora di premere il tasto 'pausa' e chiederci cosa significa tutto ciò per il futuro del lavoro, della vita e perfino della nostra stessa specie. Le questioni in ballo sembrano assomigliare nella forma a quelle affrontate dagli esseri umani al vaglio di altre grandi trasformazioni tecnologiche; eppure stavolta tali questioni assumono connotazioni ancora più significative—e possono essere affrontate in maniera più diretta e specifica.
La grande notizia, non riconosciuta in quanto tale, è che ci troviamo di fronte a uno scenario assai più ampio di quello che include il multitasking, gli MP3 piratati o i computer super-veloci delle aziende d'investimento per velocizzare le contrattazioni in borsa. Il punto è che il pensiero in quanto tale non è più un'attività individuale—quantomeno, non lo è in maniera esclusiva. È piuttosto qualcosa che avviene secondo modalità nuove e interconnesse. Tuttavia finora quest'organismo cibernetico assomiglia più a una marmaglia cibernetica che a un nuovo cervello collettivo. Gli individui vengono ridotti a sistemi nervosi configurabili dall'esterno, mentre i computer sono liberi di operare in rete e di pensare in base a sistemi più avanzati di quanto noi potremo mai fare.
Per consentire all'umanità di compiere questo balzo insieme alle nostre macchine in rete, dobbiamo riorganizzare completamente il modo di gestire il mondo del lavoro e dell'istruzione, la nostra stessa vita e il sistema nervoso all'interno di questo nuovo ambiente. "La vita interiore" in quanto tale ebbe inizio nell'Età Assiale per poi ottenere riconoscimento concreto soltanto nel Rinascimento. Si tratta di un'astrazione che ha svolto un proprio ruolo per portarci ai nostri giorni, ma che oggi va allentata per includere forme completamente nuove di attività collettive ed extra-umane. A molti quest'aspetto potrà infastidire, ma il rifiuto ad adottare un nuovo tipo d'impegno ci sta imponendo un comportamento e una psicologia che vanno facendosi sempre più vulnerabili di fronte alle predisposizioni e alle intenzioni delle reti informatiche—molte delle quali non abbiamo la più pallida idea di essere stati noi stessi a programmare. [...]
La buona notizia è che abbiamo già affrontato analoghe e profonde trasformazioni in passato. Quella cattiva è che ogni volta non siamo riusciti a trarne vantaggio in maniera efficace.
Nei tempi lunghi ogni rivoluzione mediatica offre agli individui una prospettiva completamente nuova tramite cui relazionarsi al mondo. Il linguaggio ha portato all'istruzione condivisa, all'esperienza cumulativa, alla possibilità di progresso. L'alfabeto ha aperto la strada alla responsabilità, al pensiero astratto, al monoteismo e alle norme contrattuali. La stampa e l'attività di leggere in privato hanno condotto a una nuova esperienza di individualità, alla relazione personale con Dio, alla Riforma Protestante, ai diritti umani e all'Illuminismo. L'avvento di ogni nuovo medium non mette soltanto in discussione lo status quo, bensì ne stimola la revisione e la riproposizione proprio da parte di quanti hanno conquistato nuovo accesso agli strumenti con cui era stato creato.
Purtroppo, generalmente quest'accesso è limitato a una piccola élite di individui. L'invenzione dell'alfabeto di 22 lettere, risalente all'Età Assiale, non ha portato a una società di lettori israeliti istruiti, quanto piuttosto a una società di ascoltatori, persone che si riunivano nella piazza cittadina per ascoltare un rabbino che recitava loro i dettami della Torah. Certo, sempre meglio che rimanere schiavi ignoranti, ma il risultato era assai inferiore al reale potenziale del medium.
Analogamente, l'invenzione della stampa nel Rinascimento non ha dato vita a una società di scrittori bensì di lettori; ad eccezione di rari casi, l'accesso alle macchine da stampa veniva riservato, e difeso con la forza, a quanti già vantavano posizioni di potere. Le trasmissioni radio e televisive in realtà non sono altro che estensioni della stampa: mezzi di comunicazione costosi, da uno verso molti, che distribuiscono alla massa storie e idee prodotte da una ristretta élite di individui. Non siamo noi a fare la TV; ci limitiamo a guardarla.
Finalmente il computer e le reti informatiche ci consentono anche di scrivere. E difatti usiamo questi strumenti per scrivere liberamente su siti web, blog e social network. Ma la competenza alla base dell'era informatica riguarda in realtà la programmazione—attività di cui quasi nessuno di noi è a conoscenza. Ci limitiamo a usare i programmi realizzati per noi da qualcun altro, digitando qualcosa nei riquadri appropriati sullo schermo del computer. Insegniamo ai nostri figli come usare il software per scrivere, ma non come sviluppare tale software. Ciò significa che hanno accesso alle capacità fornite loro da altri, ma non alla possibilità di impostare da soli quelle risorse tecnologiche in grado di creare valore aggiunto.
Al pari di quanti hanno preso parte alle rivoluzioni medatiche precedenti quella attuale, abbiamo abbracciato le nuove tecnologie e le alfabetizzazioni della nostra epoca senza in realtà apprenderne né i meccanismi operativi né gli effetti operativi su di noi. E così anche noi restiamo un gradino al di sotto delle possibilità concrete che ci vengono offerte. Soltanto un'élite—a volte di tipo inedito, ma comunque un gruppo ristretto di persone—è in grado di trarre pieno vantaggio da quanto promette il nuovo mezzo. Gli altri devono accontentarsi delle possibilità consentite dal suo utilizzo. La folla ascolta quel che legge il rabbino; la gente legge quanto scritto da chi ha accesso alle macchine da stampa; oggi possiamo scrivere ma è la tecno-élite a programmare. Di conseguenza la maggior parte della società rimane un bel passo indietro, nel senso della consapevolezza e delle capacità intrinseche, rispetto ai pochi che riescono a monopolizzare l'accesso al potere reale di ogni nuova epoca mediatica.
E stavolta la posta in gioco è finanche più alta che in passato. Prima fallire voleva dire arrendersi a una nuova élite. Nell'era digitale, ciò potrebbe portarci ad abbandonare la nascente struttura collettiva nelle mani delle macchine stesse. Anzi, il processo sembra essere già in corso.
In fondo in fondo, chi o qual è il cuore della rivoluzione digitale? [...]
Le strategie sviluppate in passato per far fronte alle nuove tecnologie d'intermediazione stavolta non potranno tornarci d'aiuto, per quanto la rivoluzione informatica sembri somigliare nella forma alle precedenti sfide con gli shock del futuro. Ad esempio, si può sostenere a ragione che la perplessa riflessione sul significato dell'atto di pensare parzialmente al di fuori del corpo grazie a un dispositivo esterno, sia soltanto la versione dell'era informatica delle medesime sfide imposte dall'avanzata industriale ai danni dell'immagine e della percezione di se stessi. L'era industriale ci ha imposto di rivedere i limiti del corpo umano: dove finisce il mio corpo e dove inizia lo strumento? L'età digitale ci sfida a riflettere sui limiti della mente umana: quali sono i confini della mio ambito cognitivo? E mentre all'epoca le macchine avevano sostituito e usurpato il valore del lavoro umano, oggi network e computer fanno ben più che usurpare il significato del pensiero umano. Questi non si limitano a emulare i processi intellettuali, i nostri programmi ripetibili, ma vanno anche a scoraggiare le procedure mentali più complesse. Si tratta di quei processi di livello superiore in ambito cognitivo, contemplativo, innovativo e significante che rappresentano innanzitutto la ricompensa di "dare in appalto" le nostre capacità aritmetiche ai chip al silicio.
Ovviamente il modo per venire a capo di tutto ciò sarebbe quello di farsi un'idea di come vengano programmati questi dispositivi e sistemi "pensanti", o quantomeno di poter avere un qualche impatto su come ciò viene deciso e in base a quali motivazioni.
Nel periodo iniziale dell'avvento del personal computer non potevamo comprendere appieno il funzionamento dei calcolatori, però capimmo benissimo quel che andavano facendo in vece nostra: addizionare numeri, estrarre radici quadrate, e così via. Ma diversamente dai calcolatori, non sappiamo neppure cosa chiediamo di fare ai computer e alle reti informatiche, per non parlare del modo in cui andranno a farlo. Ogni volta che lanciamo una ricerca su Google è, almeno per la maggioranza di noi, come avventurarsi in un viaggio ignoto nell'universo dei dati, come tirar fuori qualcosa da una scatola nera inaccessibile. Come fa a sapere cos'è rilevante? Come decide quali risultati visualizzare? Perché l'azienda in questione non può spiegarcelo? E comunque ci resta così poco tempo per prendere in considerazione le conseguenze del fatto di non sapere tutto quel che vorremmo rispetto alle nostre macchine. Sotto l'incombere di una tale obsolescenza, continuiamo ad accettare l'ingresso di nuove tecnologie nella nostra vita con scarsa o nessuna comprensione del loro modo di funzionare e su come agiscano nei nostri confronti.
Non sappiamo come programmare il computer, né c'interessa impararlo. Spendiamo invece molto più tempo ed energia nel cercare di capire come usarlo per programmarci a vicenda. E potenzialmente questo è un grave errore.
Avendo io stesso in passato esaltato le virtù del digitale ai profani, non posso fare a meno di guardarmi indietro e chiedermi se non abbiamo adottato certi sistemi in maniera troppo affrettata e inconsulta. O finanche in modo irreversibile. Eppure basta poco per turbare anche quelli tra noi che tifano per il lato più umano. Tendiamo a ossessionarci per le possibili frammentazioni imposte dalla tecnologia, ponendoci come forza uguale e contraria a quei tecno-libertari che celebrano la saggezza darwiniana dell'economia-alveare. Entrambe queste posizioni estreme di pensiero e di predizione sono sintomo di scarsa riflessione, piuttosto che eccessiva, sull'intera questione. Sono artefatti di macchine pensanti che impongono una scelta binaria, sì o no, vero o falso, rispetto a concetti e paradossi che prima si potevano riconciliare in maniera meno deterministica. L'introspezione in quanto tale ne risulta svilita.
La considerazione motivata richiesta oggi è quel tipo di riflessione concreta che avviene all'interno del cervello umano quando pensa da solo o in relazione agli altri in piccoli gruppi auto-selezionati, per quanto ciò possa apparire elitario alla calca dei tecnologi. Perfino nell'era digitale, libertà significa libertà di scegliere come e con chi condividere le proprie riflessioni, e non è detto che occorra diffondere ogni cosa al mondo intero con i commenti aperti e senza diritto d'autore. È anzi l'incapacità di stabilire simili confini e distinzioni, o la presunta scorrettezza politica di suggerirne l'eventualità, che ci costringe all'angolo e impedisce il progredire di discussioni significative, ininterrotte e aperte. E credo sia proprio questo il significato recondito che rischiamo di perdere. A prescindere dalla portata dei suoi aspetti positivi, Internet non potrà concedere agli esseri umani l'energia o lo spazio di cui abbiamo bisogno per ponderare le sue implicazioni e le loro conseguenze.
Siamo divenuti consapevoli dei molti problemi innescati dall'era digitale. Quello di cui c'è ora bisogno è una risposta di tipo più umano all'evoluzione delle tecnologie che ci girano intorno. Oggi viviamo in un mondo diverso da quello in cui siamo cresciuti, un mondo profondamente diverso anche da quello che vide l'irruzione dell'alfabeto in una società orale già esistente da millenni.
Quella società in cambiamento codificò quanto stava avvenendo tramite la Torah e infine con il Talmud, preparando così la gente a vivere nell'epoca della parola scritta. Sulla base del loro esempio, oggi dobbiamo codificare le trasformazioni in corso per mettere a punto un nuovo modello etico, comportamentale e imprenditoriale che possa farci da guida. Con la differenza che stavolta deve poter funzionare appieno.
Siamo sull'orlo di una vera e propria trasformazione, un periodo storico che ha già stravolto per due volte il settore finanziario, ha modificato l'approccio all'istruzione e all'intrattenimento e ha alterato lo stesso tessuto sociale delle relazioni umane. Eppure, finora siamo riusciti a comprendere assai poco di cosa ci stia accadendo e come poterci adattare al meglio. La maggior parte delle persone in gamba che potrebbero aiutarci sono troppo impegnate a offrire consulenza alle grandi corporation, dando loro consigli su come tenere in piedi quei monopoli traballanti di fronte allo tsunami digitale. C'è forse qualcuno che ha tempo per qualcos'altro, e chi sarebbe a pagare?
Eppure dobbiamo iniziare a parlarne fin da subito. Accettate perciò questo primo tentativo di affrontare la "poetica" dei media digitali con l'umiltà con cui vengono offerti: dieci semplici comandi o istruzioni in grado di aiutarci ad aprire un varco nell'universo digitale. Ciascun comando è basato sulle corrispondenti tendenze o "inclinazioni" insite nei media digitali, suggerendo come equilibrare queste predisposizioni rispetto alle necessità di persone vere che vivono e lavorano in spazi sia fisici sia virtuali, talvolta finanche nello stesso istante.
Un'inclinazione non è altro che una propensione specifica—la tendenza a promuovere una serie di comportamenti escludendone altri. Ogni mezzo di comunicazione e ogni tecnologia racchiude in sé degli orientamenti particolari. È vero che a uccidere non sono le pistole, bensì gli individui; però le pistole rappresentano una tecnologia con maggiori inclinazioni a uccidere qualcuno rispetto, per dirne una, alla radio-sveglia. La televisione suggerisce di sedersi sul divano per guardarla. Le automobili rivelano una propensione verso il movimento, l'individualismo e la vita nei quartieri residenziali. La cultura orale porta a comunicare sempre di persona, mentre quella scritta rivela un'inclinazione verso comunicazioni tra individui lontani tra loro nel tempo e nello spazio. La fotografia tradizionale e le sue costose procedure tecniche suggerivano una certa carenza, di mezzi, mentre la fotografia digitale è incline alla distribuzione immediata e diffusa. Oggi certe macchine fotografiche ci consentono perfino di caricare automaticamente le foto sul web, trasformando il clic dell'obiettivo in un gesto di editoria globale.
Per la maggioranza di noi, tuttavia, quel "clic" sembra rimasto lo stesso, pur se i risultati sono assai diversi. Non riusciamo a percepire questa diversità delle varie inclinazioni passando da una tecnologia all'altra, o da un compito all'altro. Scrivere una email non è l'equivalente di comporre una lettera, e inserire un messaggio su un social network non corrisponde a inviare una email. Non soltanto ciascuna di queste azioni porta a risultati differenti, ma ci richiede anche un quadro mentale e un approccio diversi tra loro. Così come pensiamo e ci comportiamo in maniera diversa in situazioni discordanti, analogamente pensiamo e ci comportiamo in maniera diversa quando usiamo tecnologie differenti tra loro.
Soltanto comprendendo appieno le inclinazioni insite nei mezzi di comunicazione tramite cui ci relazioniamo al mondo potremo renderci conto della differenza tra quel che intendiamo fare e quel che invece le macchine vorrebbero farci fare, prescindendo dal fatto che queste ultime o chi le ha programmate ne siano consapevoli.
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