Politics/Poetics







L'IMMAGINATION AU POUVOIR

Sometimes Doing Something Poetical Can Become Political, And Sometimes Doing Something Political Can Became Poetic (A volte qualcosa di poetico può diventare politico e a volte qualcosa di politico può diventare poetico), titolo dell'ammaliante opera di Francis Al˙s è anche l'assunto di partenza che alimenta questa sorta di esplorazione fenomenologica, che aspira a rimarcare il confine che si interpone tra politica e poetica, nozioni così tanto evocate, spesso spropositatamente, all'interno dell'art system. In questa sede, esse vengono coniugate come spazi dell'agire sociale e in quanto tali, come dimensioni di un sentire individuale rivolto a realizzare pienamente la condizione umana e la disposizione di uno spazio comune dove muoversi e distinguersi. Nello sforzo di liberarsi dalla retorica con cui la politica viene facilmente interpretata e traslata in poetica, le enunciazioni filosofiche assunte in soccorso della presente analisi, delimitano i campi dell'indagine a sottili quanto fondanti paradigmi critici. Se la politica è intesa primariamente come costruzione della polis, come legame e interlocuzione (così come la intendeva Hannah Arendt) essa si fonda, ineccepibilmente, sul dato di fatto che è la pluralità degli uomini a costituire l'habitus in cui essa si declina. Pluralità che: "Ha bisogno del rapporto di tensione tra l'uno e gli altri, tra il singolo inteso al plurale e il mondo". Muoversi all'interno del politico significa affrontare questioni legate al potere, per vano che sia e compatibilmente alla Arendt che non ha mai perduto la fiducia nella possibilità che l'uomo agente intraprenda nuove avventure e faccia in modo che le cose cambino: "Finché gli uomini possono agire, sono in grado di realizzare l'improbabile e l'imprevedibile". Ma agire liberamente significa agire in pubblico e il pubblico è l'effettivo spazio del politico. È lì che l'uomo deve affermarsi nella relazione politica con gli altri. In pratica ciò che essenzialmente si invoca è la modalità dell'essere-insieme. Accanto all'idealistica intuizione arentiana, non meno acuta è la riflessione di Jacques Ranciére, che assegna alla politica il compito di "ripartizione del sensibile" ossia di configurazione di uno spazio specifico ripartito in soggetti, oggetti, ruoli e identità, come suddivisione del visibile e invisibile che sono in conflitto tra loro. La politica consiste dunque nell'atto di condivisione del sensibile, introducendo soggetti e oggetti differenti, riplasmando il visibile in forme e orizzonti nuovi. Va da sé allora che la dimensione politica è reintrodotta nello spazio pubblico in una posizione distintiva e costitutiva, distante dall'esercizio di lotta partitica o istituzionale ma atta a dar luogo ad un mondo comune, possibilmente in conflitto, che riassegna i ruoli e riscrive i processi di soggettivazione. Comunità e pluralità, dunque, sono le strutture che definiscono il contrappunto tra politica ed estetica, gli apparati di produzione delle soggettività e delle formazioni sociali che attivano uno spazio antagonista e liquido con cui re-immaginare il mondo. Utopico o no. Politica e poetica, benché disgiunte linguisticamente e separate dalle contrastanti funzioni e disposizioni sociali, sono due realtà che si assimilano per finalità. Rancière stesso sottolinea come esse, pur essendo due forme di partizione del sensibile legate l'una e l'altra ad uno specifico regime di identificazione, al tempo stesso si dividono poiché non sempre c'è della politica nell'estetica ( e viceversa) nonostante vi sia sempre qualche forma di potere. Ma fortunatamente esistono le oasi. Le oasi sono ancora il luogo possibile di reificazione creativa, di sovvertimento del pensiero e di costruzione di nuovi orizzonti. Ed è in queste oasi che politica e poetica si incontrano e si fondono tra loro, sorvolando mondi apparentemente distanti ma liminari e li scavalcano e li percorrono politics / poetics poiché nelle differenze, negli scambi, negli azzardi e nel sapere sta racchiuso il senso dell'essere-al- mondo, qualsiasi mondo sia. Su questa convinzione si impianta questa ricerca o/e questo viaggio che è quasi una dérive psychogéographique in cui la sottrazione della retorica politica si sviluppa in una alternanza di insiemi semantici che racchiudono due specifici e folgoranti paradigmi estetici. Avvilupparsi e farsi trascinare nella vertigine neuronale di Francis Al˙s e Jeremy Deller che edificano gli enunciati discorsivi di tali paradigmi è stata una conseguenza ineffabile, laddove l'empatia polarizzante che mi accomuna al pensiero dei due artisti è di per sé magnetica ed etica, poiché, come sostiene David FosterWallace: "È impossibile non venerare qualcosa. Tutti venerano. L'unica scelta che possiamo fare è cosa venerare." La natura diadica del social surrealism di Deller e del paradox of praxis di Al˙s legittima una ricerca impostata sul senso del limite rappresentativo e il suo scavalcamento, sul nonsense linguistico e sul dis/senso attitudinale. Asimmetrie e disgiunzioni si distendono ulteriormente in affinità e discordanze che si moltiplicano, ognuna in un concatenamento ulteriore e molteplice, con altri paradigmi congiunti e al tempo stesso contrari, dando vita ad un labirinto spiralico ordito da pulsioni e desideri, pensieri e azioni e in cui affiora quell'inconscio politico che cementa le apparenti fratture e ruptures. Come sollecita Félix Guattari: "L'opera d'arte è un'intrapresa di scomposizione, di rottura di senso, di proliferazione barocca o di impoverimento estremo, che coinvolge il soggetto nella ricreazione e nella reinvenzione di se stesso". Linee di segmentalità e di stratificazioni in cui si snoda un chaosmose che interpola Deller e Al˙s tra loro ed essi a Phil Collins, Mike Kelley, Allan Kaprow, André Cadere, Hélio Oiticica, Akram Zaatari, Santiago Sierra, Bas Jan Ader, Lawrence Weiner, Elia Suleiman, Harmony Korine, Group Material, Vito Acconci, Alejandro González Iñárritu e nondimeno a Stuart Hall, Antonio Gramsci, Debord e al cinéma vérité in un'affinità anticonvenzionale di comportamento e decostruzione semantica. Così in questa vertiginosa frenesia d'incontri, relazioni, connessioni, incroci, entrelacs e vibrazioni emozionali, emerge inarrestabilmente la critica radicale ad un ordine esistente mai generico, che tenta di rovesciare e aprire a nuove e impensabili prospettive, avvalorando singolarità, comunità e gruppi sociali come soggetti politici. La società come opera d'arte e quindi la forma estetica come dimensione permanente della convivenza sociale (aspirazione ideologica marcusiana) sembra trainare il fare di Deller e Al˙s, che in una tensione ulteriore, oscillano in un audace equilibrismo tra la vita e la sua messa in opera. L'osmosi tra Deller e Al˙s scatta nell'affrontare l'interazione tra cultura e potere e il processo egemonico che da esso si sviluppa. Non solo, ma anche nell'esperire il flusso storico non come continuum narrativo e documentario bensì opponendovi una "storia generale" che problematizza gli scarti, le fratture, i diversi tipi di relazione esistenti, rifiutando di riportare i fenomeni ad un'unica e indivisa Weltanschauung ma che "dovrebbe mostrarne tutto lo spazio di una dispersione". C'è un sentire condiviso che sembra voler discernere, all'interno della storia, quegli elementi di essa, apparentemente secondari, marginali, quasi subalterni, che nella loro filigrana testimoniano un alterato habitus. A questa inclinazione risponde l'uso del détournement assunto come dispositivo linguistico che consente di rompere i dogmi della storia e della storia dell'arte, lineare e ininterrotta (così come si è sempre catapultata nella nostra coscienza) per decostruirla, fragmentandola, e risignificarla (...)
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