l'abuso della bellezza

marco senaldi


Prefazione









E' singolare che, sebbene la mia filosofia dell’arte miri a quel tipo di eternità cui la filosofia in generale aspira, sia talmente legata al suo momento storico da essere considerata importante soprattutto per l’arte che l’ha generata. Si tratta di un'arte composta da vari movimenti artistici d’avanguardia dei primi anni Sessanta, perlopiù a New York e dintorni. Va aggiunto che gran parte di quell’arte difficilmente poteva essere stata creata in precedenza.
Consideriamo la famosa Brillo Box di Andy Warhol, che ha occupato una posizione importante nel mio pensiero e nella mia opera. Prodotta ed esposta nel 1964, quest'opera si appropriò del formato di una scatola di cartone per spedizioni che già esisteva da poco più di un anno. Chi aveva disegnato quel cartone, artista lui stesso, la ideò sulla base di esempi stilistici tratti dalla pittura astratta contemporanea. “Brillo” era il nome di una spugnetta abrasiva, inventata da poco, che si pensava fosse particolarmente efficace per pulire i prodotti in alluminio. Era stata introdotta nel mercato americano solo qualche anno prima. è difficile che la Brillo Box possa aver anticipato il significato che le venne attribuito. è possibile immaginare che un oggetto potesse essere prodotto un secolo prima, che gli somigliasse perfettamente, sebbene non potesse essere ideato sulla base dei significati associati, che diedero vita alla Brillo Box in quanto opera d’arte. Non solo l'oggetto non poteva essere l'opera d’arte che diventò nel 1964, ma è difficile vedere come potesse diventare, nel 1864 una qualunque opera d’arte. Per molti risultò difficile accettarla come arte persino nel 1964, ma ormai, almeno per una parte del mondo dell'arte ciò fu possibile senza alcuna esitazione. La questione filosofica che mi ponevo agli inizi fu: com'era possibile che qualcosa diventasse un’opera d’arte in un dato momento storico, specie quando non poteva aver avuto quello status in precedenza. [...]

Nel 1917, Marcel Duchamp inserì un readymade assistito (di fatto un orinatoio) in una mostra che non aveva alcuna giuria: l'oggetto venne rifiutato dagli allestitori con l’esplicita motivazione che non si trattava di arte. C’erano parti del mondo dell’arte del 1917 che erano disponibili nei confronti dei readymade di Duchamp, ma evidentemente la giuria della Società degli Artisti Indipendenti che sponsorizzò quella mostra non vi apparteneva. Allo stesso modo, per la maggior parte del mondo dell’arte del 1964, la Brillo Box non era arte. Non c’era e non poteva esserci stata alcuna parte del mondo dell’arte di Parigi nel 1864 (o di Amsterdam nel 1664) in cui la Brillo Box poteva inserirsi. è vero che il concetto di arte stava iniziando ad allargarsi a sufficienza da far sì che Déjeuner sur l’herbe di Manet fosse accettato come arte nel 1864, anche se quasi tutti quelli che lo avevano visto al Salon des refuses pensavano che fosse una corruzione dell’arte autentica. Heinrich Wollflin scriveva che non tutto è possibile in ogni momento. In quel senso d’impossibilità storica, Brillo Box, per quanto possibile come oggetto, non era plausibile come arte prima del momento in cui lo diventò. Dobbiamo ricordare che la Brillo Box era fatta di un compensato industriale che neanche esisteva nel 1864, figuriamoci nel 1664, inoltre, venne dipinta con l'inchiostro serigrafico, anch'esso una novità. I filosofi sono estremamente superficiali quando si lanciano in questi “esperimenti mentali”. Un oggetto come la Brillo Box avrebbe provocato la stessa sorpresa dei gusci di noce di cocco trascinati a riva nell’Europa medievale.
Queste considerazioni gettano qualche ombra sul concetto di eternità dell’arte ma, soprattutto, mettono in discussione il modo in cui avvicinarsi alle opere d’arte dal punto di vista critico ed estetico. è una speculazione del formalismo, come approccio critico, quello secondo cui ogni cosa idonea a capire un’opera d’arte deve essere presente ed accessibile in ogni momento della vita dell’opera stessa. C’è, diciamo, una posizione nella filosofia dell’arte analoga a quella dell’internalismo nelle filosofie della mente e dell'esegesi.
Le opere d’arte, naturalmente, cambiano materialmente nel corso del tempo, a volte in modo radicale: i colori sbiadiscono, le statue perdono braccia e gambe. Le informazioni rilevanti per l’identificazione e l’interpretazione di un’opera a volte sono del tutto dimenticate: [...]

Vorrei dire qualcosa sul grado per cui queste considerazioni storiche appartengono al concetto di arte, ma farei meglio ad introdurre qualcosa sul concetto dei concetti. è stato spesso osservato che i Greci, con i quali inizia la filosofia dell’arte in Occidente, non avevano una parola che definisse l'arte nel loro vocabolario. Ma certamente avevano un concetto d’arte che includeva gran parte degli oggetti che noi oggi consideriamo opere d’arte. Una definizione di arte che escludesse la scultura o il teatro greco sarebbe ipso facto inaccettabile. Nello stesso tempo, essi erano consapevoli che certe proprietà, certe caratteristiche di tali oggetti, non facevano parte del concetto di arte, anche quando erano molto presenti. Mi riferisco innanzitutto alla proprietà mimetica: si credeva che le statue somigliassero ai soggetti rappresentati, nello stesso modo in cui le tragedie greche somigliavano a determinati episodi storici delle vite degli eroi. La tecnica della somiglianza, infatti, delineò la storia delle principali arti mimetiche che abbiamo ereditato: scultura e teatro. La somiglianza, dalle antiche rappresentazioni di Apollo a figure vicine al modo di apparire degli uomini, permetteva che l'illusione fosse autentica. Questa possibilità doveva aver avuto un ruolo importante nella società greca, specie nel culto religioso, dove statue di dei e dee erano così convincenti che ci si poteva credere in presenza delle divinità stesse, specialmente nell’atmosfera buia e fumosa all’interno del tempio. Nelle descrizioni della tragedia antica di Nietzsche, c’era un momento in cui l’attore principale era considerato dai celebranti veramente posseduto da un dio, così che il coro potesse sentire che Dioniso, ad esempio, fosse tra loro. è plausibile supporre che si credesse a qualcosa di simile con le statue degli dei nei templi dedicati al loro culto. Dopotutto, “la presenza mistica del santo nell’icona” era stata ampiamente accettata dall’ortodossia greca, dove ebbe un ruolo centrale nelle feroci controversie iconoclaste della Bisanzio dell’ottavo secolo. Non si voleva insinuare che la qualità artistica servisse a differenziare i gradi di somiglianza, non aveva senso che Eschilo fosse inferiore ad Euripide. [...]
Ecco un altro esempio. Dal diciottesimo secolo fino ai primi anni del ventesimo, si pensava che l’arte dovesse possedere la bellezza. Erano davvero convinti che la bellezza sarebbe stata tra le prime cose che la gente avrebbe pensato in relazione alle belle arti. Quando Roger Fry organizzò la sua grande mostra dell’arte post-impressionista alla Grafton Gallery di Londra (nel 1910 e nel 1912), il pubblico si indignò non solo per l’inosservanza della somiglianza, una caratteristica del movimento modernista, ma anche per l’evidente assenza di bellezza. [...]
Quello di cui parlo in questo libro è di come l’avanguardia intrattabile sconfessò la bellezza. Mi riferisco innanzitutto a Dada che rifiutò di creare oggetti belli per la soddisfazione di coloro che ritenevano responsabili della Grande Guerra. Nei suoi dialoghi con Pierre Cabanne, Duchamp dimostra scarsa considerazione per quello che lui chiama “un battito di ciglia”, che si supponeva l’arte provocasse negli spettatori a partire da Gustave Courbet. Egli preferiva un arte intellettuale, senza alcun appagamento sensoriale. Penso che questa avanguardia intrattabile abbia compiuto un grande passo in avanti dal punto di vista filosofico. Contribuì a dimostrare che la bellezza non faceva parte del concetto di arte, che l'arte non dipendeva dalla sua presenza. Il concetto di arte può richiedere una o più caratteristiche prese da un certo insieme, persino la bellezza, ma anche molte altre qualità, come il sublime, tanto per usare un’altra categoria molto discussa nel diciottesimo secolo. Per il momento chiamerò queste caratteristiche pragmatiche, in contrasto con le semantiche, che la mimesi semplifica prendendo in prestito questa terminologia da Lineamenti di una teoria dei segni di Charles Morris, che ebbe un ruolo importante nell’epoca d’oro del positivismo logico. Le proprietà pragmatiche servono a rendere incline il pubblico a provare sentimenti di un tipo o di un altro verso ciò che l’opera d’arte rappresenta. Secondo Morris, ciò che chiama pragmatismo prima era chiamato retorica, una delle discipline principali dell’età classica. Potrebbe essere la funzione pragmatica della bellezza ad ispirare amore verso ciò che mostra un’opera d’arte, e potrebbe essere la funzione del sublime ad ispirare reverenza. Ma ci sono tanti altri casi, come il disgusto che ispira repulsione, la comicità che ispira disprezzo o la libidine che invita a sentimenti erotici. In un certo senso, le proprietà pragmatiche corrispondono a ciò che Gottlob Frege definisce “colore” (Farbung) nella sua teoria del senso. [...]
Ad onor del vero, nel mondo dell’arte degli anni Sessanta, avrei potuto trovare esempi di queste coppie ovunque. Fluxus, per esempio, usava il cibo come arte. I minimalisti usavano parti di edifici prefabbricati e altri prodotti industriali. Gli artisti pop come Lichtenstein, ingrandivano i fumetti trovati nelle confezioni di gomme da masticare, presentandoli come dipinti. L'artista concettuale Dennis Oppenheim scavò un buco in una montagna vicino Oakland (California) e la presentò come scultura che non si poteva trasportare in un museo. Dal 1969 i concettuali erano disposti a considerare tutto come arte e tutti come artisti, pressappoco come Joseph Beuys avrebbe proposto di lì a poco. Esempi possono essere trovati nella danza, specialmente nel Judson Group, dove ballava anche gente seduta su una sedia; e nella musica di avanguardia, che metteva in crisi la distinzione tra suoni musicali e non. All’avanguardia degli anni Sessanta interessava superare il divario tra vita ed arte, cancellare la distinzione tra belle arti e arte popolare. Ma alla fine del decennio, era rimasto davvero poco di ciò che prima avremmo definito come parte del concetto di arte. è stato un periodo di spettacolare cancellazione filosofica. Era meraviglioso far parte di quel periodo!
Non c’è dubbio che la mia filosofia appartenesse a quel momento, sebbene io fossi consapevole solo parzialmente di ciò che stava accadendo e nessuno di quelli del mondo dell’arte (o dell’ambiente dei mondi dell’arte sovrapposti di quel periodo) conoscesse la mia filosofia. Soltanto di recente “The Art World” (scritto nel 1964) ha iniziato a comparire nelle antologie della storia dell’arte di quegli anni. Ma i costrutti da me utilizzati erano per la maggior parte quelli della filosofia analitica. Il mio libro Analytical Philosophy of History era in corso di stampa nel 1964, le idee di quel libro incisero sul mio modo di pensare. In quel libro, per esempio, argomentai, attraverso l'analisi sulle condizioni di verità, che i significati degli eventi storici sono invisibili a coloro che ne fanno esperienza. Questo era il modello di tesi esternalista che ho seguito nell’analisi del concetto di opera d’arte: ciò che fa diventare opera d’arte un oggetto è esterno all'oggetto stesso. [...]

Se appartengo al mio momento storico, questo spiegherebbe perché ho evitato di sollevare dubbi, fatta eccezione per il tentativo di rispondere a questo quesito, e perché raramente ho considerato nell’analisi dell’arte il ruolo di bellezza e questioni analoghe. In parte è spiegabile con le circostanze storiche con le quali è nata la mia filosofia dell’arte: l’arte d’avanguardia degli anni Sessanta, che voltò le spalle all’estetica con tanta determinazione quanta ne utilizzò la filosofia d’avanguardia di quel periodo per voltare le spalle all'istruzione. Entrambe aspiravano ad essere “cool”. Per la filosofia dell’arte credo si sia trattato di una buona mossa, perchè ha aiutato a separare la filosofia dell’arte dall’estetica, cosa che ha sempre causato una gran confusione. Mi sembra che ora abbiamo sviluppato sufficiente immunità da poter considerare di nuovo cosa renda, alla fine, l’arte così significativa nella vita umana, e di questo voglio interessarmi ora. [...]
Dagli anni Sessanta, in special modo dagli anni Ottanta, ho tentato di portare in filosofia le mie esperienze del mondo dell’arte. Lo si può fare solo se si vive il proprio tempo, e ciò rende questo libro più personale e confessionale di quanto non ci si aspetti dalla filosofia, ma anche più astratto di quanto normalmente non siano le confessioni. C'è una tradizione di confessioni meditative nella letteratura filosofica, ma soprattutto non considerate questo libro come se simulasse un'autorevolezza accademica. La sua autorità, se ne ha una, risiede altrove. Vi risparmio le note a piè di pagina che, tranne che negli scritti accademici sull’arte, costituiscono una facciata di voluta autorità. Vi invito a leggere questo libro come un racconto di avventure, con qualche argomento filosofico e discriminanti che esibisco come trofei dei miei incontri con la vita dell’arte dei nostri tempi.








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