l'abuso della bellezza


prefazione
introduzione di Marco Senaldi









Caso più unico che raro nel panorama degli studi estetici internazionali, Arthur Danto è uno dei pochi studiosi ad aver spiegato lucidamente le premesse filosofiche dell’arte contemporanea, e, insieme, ad aver sviluppato coraggiosamente le conseguenze artistiche della filosofa classica.
Per questo motivo il suo contributo è dei più rilevanti: lungi dall’attenersi al dibattito accademico sull’interpretazione del pensiero estetico, Danto – con opere indimenticabili anche se non tradotte da noi, come The Transfiguration of the Comonplace, 1981, o After the End of Art, 1997, ha tratto il dado fatale di collegare questo pensiero alle concrete pratiche artistiche del nostro tempo.
Si potrebbe aggiungere che, da serio (cioè coerente) filosofo qual è, Danto non avrebbe potuto fare altrimenti. Come è noto, infatti se c’è qualcosa che caratterizza l’arte contemporanea rispetto al passato, è il suo grado di autoconsapevolezza, o se si preferisce, di riflessività – caratteristica che essa non ha cessato di manifestare sin dai suoi esordi con le avanguardie storiche e con Duchamp, e in tutte le sue esperienze successive, dal concettuale ad oggi, anche quando apparentemente è ritornata sui suoi passi riprendendo a produrre “opere” in senso tradizionale, come quadri, disegni, sculture, ecc. Anzi, il senso stesso di questi “ritorni”, tradisce un intrinseco ripensamento sulle proprie condizioni di possibilità, che esclude per definizione ogni possibile sopravvivenza di ingenuità.
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Così, la semplice differenza che distinguerebbe un oggetto comune da un’opera d’arte, non può essere più una questione semplicemente demandabile all’antropologia, alla sociologia o alla storia dell’arte:
Per usare il mio esempio favorito, nulla indica una differenza esteriore fra la Brillo Box di Andy Warhol e le scatole di Brillo al supermercato. E l’arte concettuale ha dimostrato che non serve nemmeno un oggetto visivo tangibile affinché qualcosa sia un’opera d’arte. Ciò significa che non puoi spiegare il significato dell’arte per esempi. Ciò significa che, in quanto si tratta di apparenze, qualunque cosa può essere un’opera d’arte, e significa che se si cerca di scoprire che cosa sia l’arte, ci si deve spostare dall’esperienza dei sensi al pensiero. Si deve, in breve, voltarsi verso la filosofia. (1997, p. 13)
Il problema della minima differenza possibile tra arte e realtà intriga lo spirito filosofico di Danto, che sa bene che, quand’anche fosse del tutto concretamene abolita, è proprio essa a decidere della “verità” artistica di un’opera.
Ma nel presente testo, Danto procede ulteriormente nell’analisi esemplare delle Brillo Boxes warholiane. Infatti, il vero problema non è solo che esse sono “filosofiche” – nel senso che sono “più consapevoli” di quelle del supermercato, in quanto svolgono funzioni di opera d’arte che a quelle sono evidentemente precluse – ma è che sono anche “belle”.
Le Brillo Boxes diventarono, grazie a James Harvey [il pittore-grafico che ne disegnò la famosa “onda”] la star della mostra e da allora in poi sono diventate le star della storia dell’arte. E’ l’estetica che ne spiega il fascino, persino se Warhol stesso non avesse nulla a che fare con tutto questo (2003, p. 22)
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Neanche la Bellezza classica è un ideale completamente esaustivo, essa si staglia sempre minimamente decentrata in rapporto non tanto al suo opposto, quanto in relazione a se stessa – anche nel momento greco, classico, essa deve districarsi prima dalla rigidità simbolica, per poi quasi subito rifluire nell’agitazione ellenistica. La bellezza è dunque “già-da-sempre” il fantasma di se stessa – ma la differenza che i nostri tempi afferrano, di cui divengono consapevoli nella riflessione sul passato, è che tale disidentità, tale minima differenza, è insita nel suo stesso concetto.
Come chiosa sinteticamente Danto,
la scoperta che qualche cosa possa essere buona arte senza essere bella, [è] uno dei più grandi chiarimenti concettuali della filosofia dell’arte del XX secolo (2003, p. 71)
Non possiamo più avere un’arte bella, non perché semplicemente ci siamo volti al brutto o al disgustoso, ma perché abbiamo ri-flesso la bellezza, l’abbiamo per così dire piegata su di sé, disidentificandola da se stessa…
L’intero senso del passaggio da Kant a Hegel potrebbe essere riletto come il transito fatale dall’arte “classica” e contemplativa, a quella contemporanea performativo-riflessiva, ossia lo slittamento da una “definizione” dell’arte bella e della sua autonomia, a un’arte che sia “scienza dell’arte”, ovvero riflessione su se stessa (e sulla propria definizione) – o ancora, come spostamento da un’arte come produzione di artefatti dotati di valore estetico, a artefatti-concetti creatori di valori filosofici e culturali.
Il risultato, in ogni caso, è che l’ingresso nella contemporaneità implica che non possiamo più semplicemente fare uso della Bellezza, siamo costretti a distorcere ogni rapporto equilibrato col bello – siamo, per così dire, condannati all’eccesso, al disequilibrio, alla violazione di senso e all’abuso.
Il fascino specifico del pensiero di Danto è che egli non indietreggia mai di fronte alle conseguenze, anche le più estreme, di questo sbilanciamento. Per evocare un episodio personale, quando ho avuto modo di invitarlo a Milano in occasione di una conferenza pubblica, nel 1995, ricordo che affrontò l’argomento di una possibile filosofia dell’arte scegliendo il versante più rischioso, quello della “copia” – un tema in un certo senso tipicamente platonico, quello in cui l’arte contemporanea entra in rotta di collisione con l’estetica classica. Ma proprio su questo punto, Danto chiamò in causa l’opera di un artista controverso  e difficile come Mike Bidlo – “rifacitore” di opere di altri artisti, da Morandi a Warhol, che ricrea apponendovi un simbolico “not” (Not an Andy Warhol, ecc.) – dimostrando audacemente come proprio queste opere, che appaiono “a prima vista” dei semplici calchi, o cloni, dell’originale, sviluppassero in realtà un discorso e una riflessione inediti. In altre parole, Bidlo, nella lettura raffinata e trasparente di Danto, non appartiene più né alla semplice categoria del remake, e neanche a quella della post-pop art “appropriazionista”; piuttosto, l’insieme delle opere di Bidlo edifica un vero e proprio “itinerario” che è bensì sostenuto dalle emergenze fenomeniche dei singoli pezzi, ma che le trascende in una “riflessione” sull’idea di copia – riflessione in effetti autenticamente originale. In questa operazione, Bidlo rilancia il tema tipicamente duchampiano-warholiano della minima differenza tra arte e “realtà”, aggiornandola al campo culturale odierno, in cui la realtà di partenza non è più la “semplice merce”, ma è già completamente semantizzata, è già intrinsecamente “artistica”. Bidlo porta cioè a chiarezza ciò che in Warhol restava a livello di inconscio culturale: se Warhol aveva preso a modello le scatole Brillo forse proprio per la “bellezza” della loro grafica, Bidlo impiega direttamente “opere (ritenute) belle”, come i quadri di Morandi o di Warhol stesso.
Ma con questo stesso atto egli sanziona l’impossibilità di un uso “ingenuo” e spassionato della Bellezza – e costituisce una delle più chiare testimonianze del fatto che a noi contemporanei resta solo la drammatica scelta del suo abuso.




  postmedia books Marco Senaldi, critico d’arte e filosofo, collabora con la cattedra di Educazione Estetica dell’Università degli Studi di Milano-Bicocca. Ha tradotto e curato l’edizione italiana di testi di Gilles Deleuze e Slavoj Zizek.