anthony vidler


Postfazione

Anna Barbara

 

La relazione tra lo spazio architettonico e la percezione sensoriale non è certamente invenzione degli ultimi decenni, ma sembra evidente che la relazione tra l’esperienza dell’architettura e la dimensione emotiva sia oggi sempre più oggetto di studi e di attenzioni non solo dei più raffinati ricercatori, ma anche dei progettisti e degli studenti.

Il tema della deformazione dello spazio è centrale nel lavoro di Anthony Vidler inteso nelle due forme: quello prodotto dalla cultura psicologica del modernismo (che presentava lo spazio come proiezione del soggetto) e quello prodotto dallo scontro tra diversi mezzi di comunicazione che spezzano i confini tra i generi e le differenti arti. La relazione fra questi tipi di deformazione, psicologica e artistica, è stabilita dal terreno comune a tutte e due: la metropoli.

Le analisi di Vidler rientrano in quell’area di stimolazioni sensoriali in cui il soggetto in particolari condizioni modifica le proprie percezioni in maniera esasperata.

Ho sempre evitato di indagare questi stati alterati, nelle ricerche che da qualche decennio ho condotto sul rapporto tra sensi e architettura, perché costringono ad abbandonare la soggettività per inoltrarsi nel soggettivismo, che è materia di discipline della psiche in cui troppe persone si improvvisano esperte e, a volte, troppo pericolosamente i progettisti si inoltrano. Inoltre l’interpretazione psicologica o psichica di questi stati può dare indicazioni relative e difficilmente assolute, vanno quindi considerate per la loro possibilità di esistere e non per le prescrizioni che possono indicare.

La ricerca di Vidler è interessante perché appartiene invece a quella categoria di riflessioni che non sono per nulla gratuite e sbrigative, anzi, è talmente approfondita e informata che richiede una cultura rara e profonda per riuscire a muoversi all' interno di riferimenti, citazioni, e connessioni che l’autore compie.

La lettura di Vidler dello spazio moderno come causa o come effetto di paure, ansie e alienazioni con gli spazi è estremamente avvincente. Sembrerebbe una relazione nata almeno da un paio di secoli della nostra esperienza occidentale e in essa vi ha preso residenza. Negli spazi moderni dell’occidente si è consumata questa relazione a volte lancinante tra spazi e deformazione.

Certo è che la lettura di alcuni assunti fondamentali dell’architettura e della città moderna, come il rapporto tra la trasparenza e l’opacità, la prospettiva e la linea dell’orizzonte, il rapporto sezione stradale altezza degli edifici e altri hanno costretto a una presenza innaturale e spesso impaurita dell’umano nella città e nei suoi volumi costruiti. Lo spazio aerobico che portava con sé il valore di spazio sano, purificato e bonificato dall’insalubrità e dai disturbi mentali divenne presto un manifesto, un'idealizzazione, un tempio alla teoria dell’architettura più che un servizio ai suoi abitanti. La trasparenza assoluta diventava insostenibile per l’uomo moderno maturo, Adamo contemporaneo, profugo del paradiso perduto, bisognoso di discontinuità spaziali, di distinzioni tra interno ed esterno, e forse anche tra interno e interno. Lo spazio continuo non è spazio adulto, è un limbo di qualità mescolate privo di linguaggio. Se si prova a trasporre la metafora del bambino e dell’uomo adulto all’architettura moderna, fino a quella contemporanea, si comprenderebbe il senso di agorafobia che ha invaso l’uomo del Novecento nello spazio urbano di una città senza orizzonte.(...)

L’architettura della claustrofobia come la città dell'agorafobia sono nati con la città moderna. Soprattutto la paura degli spazi aperti, che per Camillo Sitte non era nota in quelle città con spazi piccoli, intimi. Lo spazio aperto senza limiti – quello stesso spazio che atterriva Blaise Pascal, tra le vittime più celebri – fu uno dei punti di riferimento per gli architetti utopisti come Boullée e Ledoux, le cui opere di certo sperimentavano lo spazio chiuso senza limiti.

All’interno dell’opera viene messo in discussione in maniera fondamentale il punto di vista dell’osservatore come unico e statico. La storia dell’architettura è una misura della distanza tra l’osservatore e il mondo: dallo spazio tattile degli egizi, come sosteneva Riegl, aumenta la distanza attraverso la Grecia antica, poi con l’era tardo romanica e poi la prospettiva, poi ancora nel Novecento con l’osservatore che diventa dinamico e, infine, oggi che l’osservatore è fuori da sé, fuori dal proprio corpo, alle volte addirittura satellitare.

Vidler pone l’occhio cinematografico come osservatore privilegiato e dinamico sulle coordinate della quarta dimensione, perché già dal 1919 con Il gabinetto del dottor Caligari proprio il cinema aveva consentito, rispetto al teatro, la possibilità di ampliare la percezione del movimento interno della mente producendo psicospazi. L’idea che la città fosse come un film e che la strada fosse lo strumento privilegiato per la comprensione della modernità divenne un pensiero condiviso che legava Sigmund Kracauer a  Walter Benjamin e a Sergei Eisenstein. Il flaneur assunse il ruolo di regista in grado di costruire nuove forme di relazioni ottiche tra la cinepresa, la città e l’architettura.

È in questo contesto culturale che Benjamin definisce la metropolitana come l’inconscio della città e i passages come luoghi che ci portano in una dimensione onirica. Benjamin non può che essere fondamentale nelle dissertazioni di Vidler, perché gli spazi della deformazione si intrecciano con i luoghi della distrazione, dello straniamento che rendono impossibile comprendere la città in maniera tradizionale.

Fu George Simmel ad aggiungere alla teoria dello straniamento spaziale l’aspetto psicologico, considerando le relazioni sociali dell’abitante della metropoli di natura intellettiva anziché orale ed emotiva; il conscio dominerebbe l’inconscio, le abitudini sarebbero adattabili e instabili, la sfera impersonale oltrepasserebbe quella personale. La causa di queste differenze era la natura del tempo urbano, i suoi ritmi forzati e la sua regolazione rispetto agli standard.

L’interieur di Adorno, l’hotelhalle di Krakauer, il passage parigino di Benjamin erano spazi emblematici ricorrenti nei loro testi, come aspetti del nomadismo, del feticismo del consumatore e dell’individualismo diffuso della vita moderna nelle grandi città.

In questo esercizio sulla dimensione patologica della percezione Vidler compie una ulteriore analisi grazie a quegli artisti che negli ultimi anni hanno perlustrato lo spazio deformato, ammalato, negato – Vito Acconci, Rachel Whiteread, Toba Khedoori, Mike Kelley – i cui lavori sono speculari, pertanto imprescindibili gli uni dagli altri, ai lavori di Rem Koolhaas, Coop Himmelblau, Owen Moss, Daniel Libeskind, Greg Lynn. Il fatto che gli artisti affrontino le problematiche dell’architettura e che gli architetti esplorino i processi dell’arte uscendo dai canoni rigidi del funzionalismo e del formalismo ha generato una sorta di “arte intermedia”, campo di riflessioni e azioni virtuose.

Dell’opera di Vito Acconci, Vidler sembra soffermarsi su quella che valorizza la presenza dei cittadini altri da quelli su cui si era costituita la città moderna. Non è la borghesia, né la classe media il soggetto ma lo squatter, l’immigrato, il clandestino che mette a rischio la consolidata idea di cittadinanza e di sicurezza. Perché l’ansia è generata dalla sensazione di pericolo, di perdita delle proprie certezze, di attentato al quotidiano così come ben raccoglieva e catalogava la mostra Safe. Design Takes On Risk al MOMA nel novembre del 2005, a quattro anni di distanza dall’11 settembre.

Queste popolazioni, barbariche nell’accezione tanto negativa quanto positiva, si insediano in spazi già occupati, non più necessariamente nelle periferie e nelle pieghe del territorio, ma anche nei centri storici, in quelle che un tempo erano le roccaforti di un potere certificato. Già ai tempi della rivoluzione industriale George Simmel aveva identificato questi invasori come “coloro che restano e non coloro che passano”, oggi Marc Augé direbbe che “sono le periferie che vivono a Les Halles”. L’arte architettonica di Acconci offre un contributo al pensiero critico dell’architettura in merito a quei luoghi e a questi nuovi insediati laddove la dimensione funzionale e quella simbolica dell’architettura assumono altri significati e altre modalità.

Anche le opere della scultrice Rachel Whiteread assumono un forte interesse alla deformazione prodotta dai ricordi che riempiono gli spazi vuoti e carichi di emozioni deformanti lo spazio reale. Le opere di Whiteread – laddove, come nel caso di House, sono autentiche colate di materia dentro gli spazi in grado di fissare tempo e vita – agiscono come il suono, la luce, gli odori, ossia presidiano i vuoti anziché i pieni. Ma visualizzare la materia dei ricordi è archeologia fascinosa se riguarda Ercolano e Pompei, mentre diventa provocazione insostenibile per le istituzioni se è relativa ad un passato recente, ancora troppo prossimo, personale. Il fastidio prodotto dall’opera di Rachel Whiteread ha radici nei tabù della casa come fine della domesticità. Chiunque ha provato a toccare quest’aura di domesticità – le case intrauterine di Tristan Tzara, le case solubili di Dalì, la case morbide di Matta – o ad emanciparla dall’utero materno accogliente ed eterno riparo, ha sempre subito critiche feroci. Il lavoro di Whiteread è qualcosa che chirurgicamente taglia il cordone ombelicale tra la madre-casa e il figlio-abitante o forse risulta più scioccante perché è proprio una donna a conclamarlo. Ed è sempre la rottura dell’ipocrisia dell’armonia domestica, a partire dall’idea indeterminata di tetti-ala che muove la progettazione di alcuni edifici di Coop Himmelblau di cui Vidler racconta.

In altre opere di Whiteread il ricordo diventa memoria collettiva perché si tratta del genocidio degli Ebrei nel Monumento commemorativo dell’Olocausto nella Judenplatz a Vienna. L’edificio è il calco di una biblioteca: la presenza perduta dei libri si proietta fuori all’infinito in un confine labile tra scultura e architettura, perché un dentro se c’è non è incluso, ma esposto, esterno, estroverso.

Negli spazi deformati trova posto anche il concetto di Terminal Transfer di Martha Rosler che nasce da una perdita di orientamento del soggetto in movimento sulle strade, autostrade, nei terminal aeroportuali. È un disorientamento collegato alla simultaneità temporale di più tempi, oppure alla simultaneità percettiva del conducente che ha una quadruplicazione del punto di vista: parabrezza, specchietti laterali e specchio retrovisore. È la declinazione più estrema dell’osservatore mobile su un’auto o su un mezzo mobile i cui punti di fuga stanno intorno ad una curva di 180°, in una scena ampliata che qualche tecnologia digitale assimilerebbe ad una sorta di augmented reality.È la fine della prospettiva unica, ma anche la conferma dell’informe di Bataille in cui spazio e tempo divorano l’oggetto, si forma il non-spazio che può esistere senza che ci sia l’umano. (...)

La fine della prospettiva unica è un tema del Museo Ebraico di Libeskind a Berlino dove è annullata la prospettiva unica, e se ne aprono mille. La forma è inenarrabile perché è troppo vicina per poterla abbracciare del tutto. Potrebbe essere solo un “film” a poterla restituire, oppure quelle ellissi kafkiane che Benjamin considerava l'unione di due mondi incommensurabili resi moderni tramite la compresenza dell’immaginario. Le ellissi di Libeskind, i suoi spazi deformati, che terminano in mondi invisibili, possono essere prove di abilità a sopportare le vertigini dei labirinti che costituiscono la nostra modernità.

Il libro si conclude con un altro tema centrale tra il corpo e lo spazio che è il rapporto che sempre si è instaurato tra spazio e identità attraverso la rappresentazione. La vitruviana di Leonardo da Vinci è sempre stata un'immagine interpretativa della relazione tra corpo e spazio nell’architettura rinascimentale. Secondo Vidler, come il soggetto umanistico era legato allo spazio prospettico, così il soggetto moderno era collegato allo spazio del montaggio.

Oggi la questione della identità del XXI secolo ha qualcosa a che fare con il digitale e soprattutto con il paragone di Sigmund Freud fra lo spazio nevrotico e il paesaggio preistorico col suo vero e proprio culto per i dinosauri. Si tratta di uno spazio di assoluta coscienza di sé, che però è come una immagine bloccata a metà tra “un teledipendente e un hacker, e che in termini architettonici potrebbe essere localizzato da qualche parte nello spazio fra multipli schermi”. Si tratta quindi di uno spazio appiattito, privo di profondità, uno spazio a "Ombra zero" (come intitolavo qualche anno fa il capitolo di un libro sui sensi), in cui la profondità è data da una sequenza di layer che hanno una temporalità del simultaneo. Così mentre la prospettiva e le altre proiezioni geometriche erano controllate dal primato del soggetto osservante, la proiezione digitale ha una sua logica interna: il soggetto in questo spazio non è più osservatore ma incluso esso stesso nello sguardo, non è un osservatore, ma un sistema di scansione.

Lo spazio del racconto, della deduzione, che ci ha fatto oltrepassare la modernità ha passato il testimone allo spazio ipertestuale, dell’intuizione, della fine della narrazione. In questa assenza di profondità non c’è distanza, gli estremi sono poggiati sul medesimo piano temporale, spaziale e cavernicolo ed astronauta diventano compagni o conviventi.

.

  postmedia books Anna Barbara indaga i rapporti che intercorrono tra sensorialità e architettura, luoghi, oggetti, arte. Ha tenuto corsi e conferenze in molte università straniere ed è stata nelle giurie di numerosi concorsi internazionali. Ha insegnato alla Kookmin University di Seoul in Corea del Sud, all’Università dell’Immagine di Milano. Insegna al Politecnico di Milano alla Facoltà di Disegno Industriale, di Architettura Ambientale di Piacenza ed è coordinatrice della Scuola di Fashion e Textile Design della Nuova Accademia di Belle Arti di Milano. Ha pubblicato libri e saggi sul rapporto tra l’architettura, il design, il marketing e la sensorialità: tra i suoi titoli più noti, Storie di architettura attraverso i sensi, Bruno Mondadori, Milano 2000 - seconda edizione Postmedia Books 2011.