anthony vidler

anna barbara
La deformazione dello spazio
Prefazione


Pieghe, bolle, reti, pelli, diagrammi: parole utilizzate per descrivere procedimenti di teoria e  design che, durante l’ultimo decennio, hanno rapidamente sostituito tagli, crepe, faglie e negazioni associate al decostruttivismo, che a sua volta aveva utilizzato tipi, segni, strutture e morfologie tipiche del razionalismo. Il nuovo vocabolario ha molto a che fare con l’interesse contemporaneo verso l’informe; sembra attingere le sue energie dalla rilettura di Bataille e dal rinnovato interesse per Deleuze e Guattari; probabilmente i suoi cult movie sarebbero Crash più che Blade Runner, The Matrix e non Brazil; l’autore preferito potrebbe essere Burroughs piuttosto che Gibson, Zizek ma forse non Derrida. Le forme rappresentative di questa forte tendenza sono complesse e curve, liscie e intersecantesi, lucide e traslucide, sottili e diagrammatiche. Sia il nuovo vocabolario che le sue materializzazioni si intersecano e le tecniche utilizzate derivano dalla tecnologia digitale; in realtà, molti progetti e oggetti di design non sarebbero realizzabili né immaginabili senza di essa. Sono parole e forme concepite e manipolate in uno spazio virtuale, che comunque mantiene una stretta relazione con le tecniche di produzione e la tecnologia dei materiali. Tale relazione sarebbe impossibile senza l’interfaccia digitale, che interpreta l’informazione, teorica e pratica, secondo le stesse regole di rappresentazione e replicazione... 

Anthony Vidler 


(...) All'interno di questo scenario culturale tipicamente fin de siècle, fanno la loro comparsa due fenomeni del tutto inediti: da un lato la metropoli moderna, che disegna rapporti spaziali e interpersonali inediti; dall'altro, le nuove nevrosi topologiche (agorafobia, claustrofobia). La tesi proposta da Anthony Vidler in La deformazione dello spazio prende le mosse proprio da questo scenario, e sostiene come la città moderna, popolata di forme architettoniche disturbanti, abbia impresso allo spazio liscio una torsione verso la problematicità. Questa condizione di ambivalenza e di inquietudine di cui si colora lo spazio urbano è ciò che la cultura psicanalitica chiama perturbante, cioè la trasformazione di qualcosa di familiare (heimlich) in un che di estraneo (un-heimlich). L' "uomo della folla" di Poe ed Engels, il flâneur di Benjamin e Baudelaire, il vagabondo di Charcot ma anche le hotelhalle di Siegfried Kracauer e le scenografie espressioniste dei film dell'UFA sono tutte figure eminenti di questo paradigma spaziale deforme e instabile, che ha acquisito profondità e fascinazione a dispetto della fiducia e della consuetudine.
Uno schema che, secondo Vidler, si ripropone anche oggi, dove l'arte e l'architettura contemporanea hanno rivalutato l'idea di "spazio inquieto" facendone lo strumento di una radicale denuncia contro l'inconsistenza di concetti ideologici come trasparenza, funzione, evidenza e razionalità. Gli spazi progettati da Vito Acconci o da Coop Himmelb(l)au, spiega Vidler, sono luoghi frammentati ed emotivi in cui è andata perduta in maniera definitiva ogni fiducia nei miti igienici e positivi del Modernismo architettonico. L'avventura modernista si presenta così per Vidler come una parentesi astratta, un'interruzione temporanea nella più ampia oscillazione dello spazio de-formato.
Con La deformazione dello spazio Vidler continua la sua ricerca sull'inconscio ottico dell'epoca moderna, di cui fanno parte anche la monografia su Ledoux e Il perturbante dell'architettura.
(Domus 934 _ marzo 2010)

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